27.2.11

Il Riccio è mobile

Abbiamo pulito casa come se non potessimo lasciare disordine, come quando si parte via e per respirare un po' di quello che non si conosce, un po' di riequilibrante senso di disorientamento tipico dei viaggi, quasi sempre però si ha la necessità di lasciare organizzato più di quanto non si faccia di norma nella vita di ogni giorno, che questa la conosci talmente bene, ci sguazzi con la stessa pacata disillusione di un pesce in un acquario, che non hai bisogno di renderla burocratica poi più di tanto.

Abbiamo attinto le forze da quel bisogno inconscio e un po' puerile di rendere tutto lo spazio a vista il più ordinato e controllato possibile quando è impossibile farlo sugli spazi invisibili dell'anima.
Perciò lenzuola pulite, panni al sole, finestre aperte, tappeti sbattuti, via la polvere, i piatti sporchi, chiuso il tavolo da lavoro per due e passato in rassegna le bollette da pagare, la spesa da fare, le scadenze da soddisfare.

Ci siamo dati questo specie di addio in questo modo, indaffarati a zittire parole che non avrebbe avuto molto senso pronunciare. Aiutati da questo nostro scricciolo alto 84 cm la cui unica inconsapevole priorità è quella di giocare a palla.
Perciò una palla, uno scricciolo, le sue urla, e due pierrot.   

E questo addio che nell'era della mobilità, dei viaggi lunghi e insieme della possibilità di tornare spesso, risulta stonato. Nonostante il Riccio si sia portato tutto, vestiti, pc, basso e pedaliera. Tutte le sue cose. E abbia lasciato decine di posti vuoti, nel letto, in bagno, a tavola, nell'armadio, in macchina, nello studio condiviso, le tazzine vuote.

Lo so, non siamo i soli: partecipiamo a una fitta moltitudine di famiglie divise dalla necessità.
Eppure è tutta mia questa paura, questo senso di vuoto e di silenzio. Questa mancanza di un Riccio che la sera spenga le luci di casa.

24.2.11

Noblesse n'oblige pas

Benvenuta mia nuova cara vicina di casa,
tu che appena arrivata hai fatto vento con le tue ciglia lunghissime perché la polvere non incrinasse il delicato ecosistema del tuo nasino opaco di fondotinta, incipriato e all'insù; che hai steso i primi panni al sole tenendoli sulle punte delle dita come se il cotone fosse budello di cinghiale per la tua french manicure appena fatta; tu che la prima battuta è stata "oddio, appena due giorni qui a casa e sembro una casalinga" toccandoti disgustata l'unica punta di capello colpevole d'essere scappata dalla piastra perfetta e luccicante, e l'hai detto a me, proprio a me, che, a un palmo dal tuo nasino efficiente contro i maleodori quanto un allarme antincendio a Manhattan, stavo in ciabatte, in braccio Sofia che lentamente ma inesorabilmente mi sta preparando al gran galà di Notre-Dame per gobbi, e due ciocche di capelli, una qui a Catania, l'altra nell'emisfero boreale, a tenersi in contatto su skype.
E tra noi amore a prima vista.
Nonostante tra quel tuo sembro sciorinato lì per gettare le basi di un simpatico e cordiale rapporto di vicinato e il mio sono ci siano chilometri di divario esistenziale e insondabile.

Benvenuta, fata sorridente e paillettata,
tu che sembri totalmente affrancata da qualsiasi dubbio esistenziale, sempre così serena, leggera, decisa, sorriso stampato a fuoco nel tuo dna, prototipo vivente del detto greco καλὸς καὶ ἀγαθός o della sua più recente interpretazione trash "pulita dentro e bella fuori plin plin"
E io qui a spolverare. E tu ridi.
E io qui ad ordinare. E tu ridi.
E io qui a far l'espurgo in carne ed ossa. E tu ridi.
E io qui a decidere se gli scarti dell'espurgo vadano nella differenziata o in questa tua inopportuna risata. E tu ridi ancora.

E ora che sei tornata dall'happy hour (e su dai che a quest'auar le poste sono chiuse, gli uffici pure, i vestiti -o è il caso di dire outfit-, come palesemente ti piace ostentare, ce li hai, tutta jeans griffati e magliettine più le mando giù più lo tiro su) siamo tutti qui fuori, io, il Riccio, Sofia, il giardiniere, il tuo uomo e suo fratello io sono il Signore dei Cieli e della Terra tipico, mi sembra, di tutta la tua stirpe che però, benché affollata di signori, non cede a lotte volgari e sanguinarie di potere, ché tanto il popolo da frustare e snobbare è un mare sconfinato e pescoso, e con quell'aria "senza di me non avete combinato granché" vorresti l'applauso mentre sbatti quei tacchi 10 cm 10 come se avessi bisogno della fanfara per essere annunciata. Ma scusaci, sai, se l'applauso non parte: è che, uno, le fanfare spaventano Sofia, due, siamo tutti qui occupati e inebetiti a guardare venir su quel po' po' di giardino 4 salti in padella, alberello d'ulivo già alto due metri, siepe attorcigliata 2 metri per 2, su un prato fitto fitto pronto solo da srotolare e via: stasera poi, invito a corte, lo farai ammirare il giardino dei finti contini senza badare al fatto che in 5 minuti di srotolamento, il lavoro mio e del Riccio di durata bisettimanale perché il nostro giardinetto fosse quanto più vicino ad un caloroso benvenuto per il vostro arrivo, sembra ormai il tentativo di metter su una baraccopoli alla bell'e meglio.
Ma certo nell'era del tutto e subito e dell'ottimizzazione non conta affatto l'impegno o la fatica, che anzi sono sgradevoli e borghesi effetti collaterali tipici del volgo che non ha strutture adeguate per ottimizzare: qui conta l'effetto, la risultanza, il punteggio positivo. Perciò senza dubbio: 4 salti in giardino vs Aquila due anni dopo ancora sul punto di 1-0.



Sì, mia cara, benvenuta qui, ragazza della porta accanto solo per logistica,
qui a condividere odori di mezzogiorno, incomprensibili cadute di monetine sempre presenti, colpi di tosse ed echi notturni imbarazzanti.
Benvenuta, davvero, mia nuova vicina di casa, che come un dentista sul dente malato, in un attimo che sei arrivata, hai scoperto tutte le carie della mia vita, ciabatte, espurghi e tendopoli.

Sì.

Davvero.

Sì....

...sì, mo scenni, però, essù, che gli zebedei cominciano a dolermi.


Aggiornamento delle 21:50: naturalmente il titolo è riferito a me, rendendomi conto già dalla stesura del pezzo di non aver dato granché prova di stile.
Dicesi casalinghitudine ad oltranza frustrata e frustrante.

17.2.11

Latte e pomodoro

"Riccio, cos'è la semplicità?"
Silenzio. "E' il latte senza nesquik, è la pasta col pomodoro fresco"

Mi deludono queste parole.
Dal Riccio pretendo di più. Ho bisogno che mi spieghi per filo e per segno dov'è che posso trovare quello di cui adesso ho più bisogno.
Per filo e per segno.
Che mi dica che la semplicità è come camminare pur sembrando fermi, il movimento immobile, quel andare verso ma essere sempre al proprio posto, quell'esserci pieno e risolto, come gli alberi, il loro crescere verso le zone di sole e la dignità del loro stare radicati.
Che mi dica che è sospendere il giudizio affamato, quello che insegue con affanno le cose ma rimane sempre a un passo tutto attorno a loro. Perciò che mi dica che la semplicità è sospendere il giudizio sulle cose e piuttosto tenerle in mano, toccarle.
L'armistizio tra immaginazione e realtà.
Come fanno i bambini.
Che non è né la domenica di Pasqua né la sua attesa, ma il timo e il rosmarino sulla carne al fuoco di tutte le domeniche di festa.
E delle domeniche di festa non il tavolo e il chiacchiericcio che l'imbandisce, ma i bambini che corrono tutto attorno urlando.
Che il Riccio mi dica che la semplicità è suonare la chitarra per la sua bambina ancora in pigiama e cantare, come in questo momento, e tutti i rumori della casa sembrano niente.
Che la semplicità è tacere aspettando che le cose parlino loro di se stesse.

Tacere.

Aspettare.

Sospendere il giudizio.

....

....


Bah. Ecco. Appunto. 
Il "per filo e per segno" complica quello che deve restarsene così com'è.
La semplicità viene prima del filo, prima del segno.


C'ha ragione il Riccio. La semplicità è il latte senza nesquik, è la pasta col pomodoro fresco.

14.2.11

E' niente, tesoro

E niente, tesoro.
E' così che deve andare.
La tua mamma ci ha provato a proteggerti dalle paure, prime fra tutte quelle che le sembrano le più grandi, forse perché fanno paura anche a lei, il senso di abbandono e di solitudine, a proteggerti dalle delusioni, le noie, le fragilità dell'essere senza scudi di sorta, i disagi, i malesseri di chi non si sente ancora parte piena di questo mondo, la rabbia a fartela assaggiare a piccole dosi, il minimo indispensabile per poterti dire capace di ribellarti; ci ha provato, la tua mamma, a difenderti dai venti caldi che ti inaridiscono la pelle e da quelli freddi che offendono le ossa, a farti ombra sotto il sole, a non fartelo mancare mai però; ci ha provato a infonderti coraggio e serenità a partire dalle piccole cose di questa nostra casa per poi saperle investire là fuori dove le cose sono poco più grandi. 
Ma non è servito granché se adesso pensi che il benessere e tutte le spinte più buone ti arrivino a partire da me, e ritorno.
Non mi sembra di averti reso forte se ti dai il permesso di assaggiare tutte le cose che del mondo ami solo se seduta sulle mie gambe.

Perciò adesso devi vedertela tu. Studiare il modo di capire da sola certe cose, primo fra tutto il fatto che da sola devi arrampicarti sui muri che ti soffocano e scavalcarli. Che tu hai una storia, è la tua, e certe frasi le devi scrivere solo tu.

E sai, tesoro? 
Mi va bene.
Mi va bene perché adesso anch'io ho bisogno di scrivere la mia storia. Riscriverla.
Mi va bene perché la tua sofferenza oggi mi tocca meno. 
Ché non sento più niente, non ci sto capendo più niente, sono decentrata, persa su un pianeta che non parla la mia lingua, e spaventata per questo, un po' per le circostanze di questi giorni, un po' perché il nutrirti continuamente e indefessamente ha affamato me. 
E c'è poca empatia. C'è poco da immedesimarsi e capirti e farti da sostegno e ombra, se non riesco ad essere nemmeno sostegno di me stessa.
Perciò nonostante il tuo sentirti persa in questo tuo nuovo mondo, a me va bene così.
Ché ti sarai accorta che la tua mamma incarna lo stereotipo più squallido dell'essere madre, quella sempre stanca, che non ride, immersa in tutte quelle faccende che hanno poco dall'appartenerle fino in fondo. 
Ti sarai sicuramente accorta che la tua mamma è lontana mille miglia da quella donna che faceva le boccacce, a terra a quattro zampe a far la tigre, e ti offriva le mele sbucciate felice che in un così piccolissimo gesto fosse custodita tutta la tenerezza di questo mondo.

E mentre sarai lì a vincere le tue paure,
io sarò qui a vedere di capirci qualcosa, a pensare, a scendere da questa giostra che mi ha sfiancato, 
a interessarmi di nuovo delle mie cose o di cose nuove,
ad aprire un libro e fermarmici per più di venti minuti,
a cercare di sentire come una volta la musica,
a calmare il cuore che messo a folle non riesce a sentire niente 
e a ridarmi il mio nome. Veronica.

Vedrai, è niente tesoro.
Una volta che avremo scavalcato ognuna i nostri muri.

6.2.11

Sofia che

si arrampica su divani, letti, cuscini, muretti e scale, cade e rimane ferma, indecisa sulla reazione, finché non le dico cantilenando "salamona", e ride.
Sofia che ad ogni pozzanghera, bacinella, secchio, lavandino, vasca da bagno, prima un dito, poi la mano con maglietta, poi tutta.
Sofia che tocca qualsiasi cosa, le chiavi, i telefonini, le borse, i detersivi, i documenti, i cd, le forbici, le abatjours illuminate, qualsiasi cosa non sia un suo gioco.
Che tocca la terra, la passa sui polpastrelli, le va bene, si riempie la mano, le va bene, la lascia cadere sulle scarpe, le va bene, se la lancia sui capelli e sulla faccia, la mangia, ci si stende tutta sopra, e le va bene, lei che appena una mollica di biscotto e all'istante "manina! manina!"
Sofia che parla, tutto doppio, "metto metto" "tocca tocca" "buono buono" "sì sì" "così così"
Sofia e il suo "tocca tocca": tocca tocca le stelle, la luna e i lampadari. 
Sofia che scappa " 'iuto! 'iuto!", che rincorre, che corre e quando corre è la cosa più carina che abbia mai visto perché saltella e le saltella tutto, i piedini, le gambe, le mani, le dita, le spalle, le guance e i capelli.
Sofia che balla, qualsiasi cosa, anche se la musica proviene da lontanissimo e arrivano poche note inconsistenti.
Sofia che quando le metto sui capelli la fascietta glicine e cuori d'argento è bellissima, si guarda allo specchio e si applaude. 
Sofia e la gioia del "ba'nietto". Io e il nervosismo per il pantano.
Sofia e l'ordine: chiude porte, finestre, sportelli e cassetti, il tappo sulle bottiglie, tovaglioli, pannolini e salviette nella "spazzatu'a".
Sofia e i suoi Barbapapà, Winnie the Pooh, Pingu, Panda, il Re Leone, suricata, facocero e "abimbaue" messi in loop tutto il giorno, dalla cucina allo studio, dalla tv al computer.
Sofia che lancia a terra ogni oggetto tra i più molesti per emissione di suoni che possa esistere.
Sofia che però porge le cose che ha imparato a non buttare, ciuccio e biberon, "graccie mamma, graccie papà"
Sofia che quando la sgrido lacrimoni appesi alle ciglia, tutta rossa paonazza, labbro tremulo, finché commossa non le chiedo "ti viene da piangere?" e lei con una smorfia fatta di tristezza e riso un "sììì..." lungo e sussurrato e ridendo con quel misto di dolore finalmente giù i lacrimoni.
Sofia e la mamma, a casa, a letto, in macchina, a far la spesa, in bagno mentre faccio pipì, la doccia, i denti, mi trucco, lavo i piatti, cambio le lenzuola, le piego, e Sofia giù sotto che urla divertita. Sofia e la mamma sempre e ovunque.
Sofia la mattina l'asilo, "mammahhmammaahh", e di notte gli incubi, "mammahhmammaahh".
Sofia e "no!: mamma": 
vuoi andare dalla nonna? no!: mamma vuoi giocare con la zia? no!: mamma perché non vai con papà a correre? no!: mamma il nonno ti mette il giubbotto? no!: mamma ti cambia il pannolino ti da la pastina ti fa addormentare no!: mamma.
Sofia che mi graffia, mi pizzica, mi tira i capelli, mi morde, mi fa le pernacchie sul collo, si arrampica su tutte le anse del mio corpo, e ridiamo, compagne di un gioco fisico a tratti burrascoso e morbido. 
Sofia che mi bacia, uno sulla guancia, si ferma e ride, e poi riparte: la guancia, la guancia, la guancia, la bocca, il naso, l'occhio, la testa, ed è la commozione per eccellenza, quella mai provata prima.
Sofia che all'improvviso risale a galla da un suo gioco e trasalisce, per un suono o una voce un po' più alta o anche per qualcos'altro che ancora non so, e viene correndo in braccio o tra le gambe dicendo pau'a, e questo suo definire così bene un suo sentimento mi stupisce.
Sofia che ride tanto, urla tanto, si ribella tanto, piange tanto

Sofia ebbra di vita


e a fine giornata io
ebbra di sonno
che, a starle dietro, nel corpo me ne rimane poca di vita