30.6.11

Fenomenologia di una donna. Filosofa mamma. E normale

Se mi devo spiegare è perché ho fallito con lo strumento che sto usando per comunicare.
Ad ogni modo.

Dai commenti a post precedenti sono uscite delle visioni che mi hanno ispirata a spiegare com'è che mi metto qui, sigaretta in bocca, ispirazione e scrivo.

Intanto tutti noi dobbiamo cercare di sforzarci a stare cauti, specie se abbiamo in mano un blog personale. Voglio dire: stiamo riferendo pensieri di fondo, di coscienza, e non dati misurabili tipo Berlusconi fa il bunga bunga per superare il dolore arrecatogli dalla separazione con Veronica.
Questi pensieri di coscienza arrivano qui sui post dopo essere stati maldestramente riassunti. Tra una enunciazione e un'altra ci sono centinaia di retro pensieri e retro esperienze che poi qui non arrivano.
Se no si fa sera.
Potrebbe essere così, quei pensieri apparentemente disconnessi eppur legati da consecutio logica:
dio sono felice, bellissima giornata, guarda un po' l'albero di  albicocche quant'è cresciuto, pieno di foglie, caldo ma quest'aria è morbida, adoro sentire il mio corpo, sofia che fa?, avanti mamma non imbrogliare: le codine non gliele fai perché ti stai incominciando a rompere le palle di stare con sofia dopo appena soli cinque minuti, non vedo l'ora di cambiare casa così da non cadere nella trappola viviamo vicini stiamo vicini soffochiamo vicini, già cambiare casa ma come?, siamo bloccati in questa situazione per il momento, sono felice ma devo sistemare la situazione, devo telefonare, ora apro anche quella finestra, che meraviglia: finalmente le cicale, ecco mi chiami mamma con quel tono scherzoso che cerca di mascherare il fatto che mi vuoi mollare sofia che per te dieci minuti sono troppi, dio non la sopporto questa situazione, mi irrita, mi deprime, ora andiamo a casa che preparo il sugo con quei pomodori di Pachino buonissimi, dio ma quant'è paciocca, ora me la mangio.
Ecco e poi vi scrivo che sono irritata e depressa.
Mi etichetto. Nasce l'etichetta, e l'etichetta è l'esemplificazione molesta di un disegno grandioso, di un meraviglioso complesso.

Non so perché qui, ma devo dire in genere quando sono chiamata a discutere, mi faccio seria.
E' che non mi piace affatto cincischiare. Non lo faccio neanche nella vita vera.
Mi piace scavare. E trovare termini portentosi e crudi per farlo, perché nella parole risiede un formidabile fuoco capace di far uscire quello che abbiamo in fondo.
Si chiama maieutica. E in effetti sono una socratica. Agli esami ho sempre riscosso successo non tanto per la quantità di sapere che mostravo quanto per la metodologia che mettevo in atto. L'esame si trasformava sempre in lezione vera e propria. Chiedevo, ribattevo, osavo, pensavo. E uscivano cose nuove e diverse dai contenuti dell'esame. E piaceva. Sono una filosofa e il mio sistema è quello di continua ricerca.
Vuol dire che non discuto delle cose che possiedo e che sono assodate e che non devono essere modificate.
Discuto invece di ciò che mi manca, a un passo dall'evoluzione. Perché ritengo che se noi esseri umani siamo in continua evoluzione, sempre in ricerca, è grazie a quella mancanza congenita che sentiamo continuamente. Per questo siamo grandiosi.
Per cui dietro ai miei lamenti c'è un senso eroico. Mi piace che mi manchino delle cose, che io sia irrequieta, che lotti per andare avanti, se no che avventura sarebbe mai questa vita? Sarei uno zerbino poggiato.
E poi uso questa nudità d'animo perché non mi imbarazzo, sono consapevole di me, sono una nudista e so che il corpo che mostro lo riconoscete tutti voi che lo avete uguale o simile al mio. E mi piace provocare.
E quando tutto questo mi viene a noia cambio.
In pillole la metodologia usata in questo blog.

Bene. Ora arriva il bello.
Il bello è che sono una persona normale, eh?
Non pensate che io stia sempre lì a menarmela.
Io sono un'esistenzialista gaudente. A me vivere non è che piace: mi fa godere proprio. Nel bene e nel male.
E sono certa che tutti capiscano benissimo quello che intendo dire.
E per dimostrare quanto io sia normale ecco:
intanto con Sofia parlo ancora con quella vocina cretina, quella acuta, quella scema che esce con gli animali. E poi la appello in migliaia di nomignoli: la chiamo Nenè, tulipano, chiocciolina, Tinchi-uinchi, titina, Totò (questo suscita il nervosismo tra i più), Cieche, Cecè, Zurigo, Suzuki Planetario (non chiedetemi perché, ché non lo so nemmeno io). Persino Zebedeo.
Mi piace stiracchiarmi, fumarmi la prima sigaretta appena sveglia e trovare il caffè del giorno prima, il sudoku quello diabolico e le tavole logiche; una volta all'anno mi piace giocare a carte e se qualcuno giocasse con me starei ore a Scarabeo (ora Scrubble), ma poi non è vero perché da un po' di tempo dopo dieci minuti che ci gioco mi rompo le palle; mi piace anche dire le parolacce; quando stendo i vestiti li odoro e se non profumano mi incazzo; tanto mi annoia andare a buttare la spazzatura che quando lo faccio mi sento Giovanna d'Arco; quando dobbiamo andare e Sofia indugia adoro prenderla in giro e dirle: "va bene allora ciao, ci vediamo domani eh?" e me ne vado e lei mi segue trafelata. Non sopporto le creme addosso e non metterle mi fa sentire speciale anche se so che un giorno me ne pentirò, allora rarissimamente mi sforzo. Quando mi lavo i denti vado dall'interno all'esterno e dal dentista a stare a bocca aperta mi sento scema. Litigo con mia mamma, continuamente, per qualsiasi cosa e mi fa ridere (a volte) sapere quanto sia sciocco il fatto che per partito preso se per lei è A per me è B e dopo qualche giorno se per me quella B è diventata A per lei stavolta è B. Spesso mi costringo a parlare con mio papà di cose di cui non me ne frega niente fingendo interesse. Adoro, immensamente, quelle volte in cui i miei zii vengono a mangiare dai miei e ci riuniamo. Quando vengo corteggiata, per strada, se lui non mi piace sono cortese, ringrazio il dottore rifiuto e vado avanti; nel caso in cui mi piace sfodero i miei occhi da gatta. Se so che dietro c'è qualcuno che mi sta guardando il sedere mi imbarazzo da morire. Ma a volte, se me la sento, sculetto apposta. Accanto a me e tutt'intorno mentre scrivo ci saranno due quintali di vestiti da stirare. Mi capita di pensare più o meno spesso a quella volta che il Riccio doveva suonare e aspettando sono salita sul palco, ho preso il suo basso, ho suonato due note che mi aveva insegnato e la gente si è avvicinata ad ascoltarmi e avevo le farfalle nello stomaco e ho capito cosa prova il Riccio; le scene di sesso in televisione mi imbarazzano; passo il dito indice sui mobili per verificare a che livello di polvere siamo arrivati; sono talmente educata che a volte mi piace essere volgare; non sopporto le cose vecchie e rotte e le butto e per questo ho dovuto sempre lottare, prima con mio padre, ora con il Riccio; mi annoia cambiare le pile scariche e in genere lo faccio fare agli altri.
Accanto a me e tutt'intorno mentre scrivo ci saranno due quintali di vestiti da stirare. Perciò adesso la smetto.
Più che normale, no?

28.6.11

Ma quanti anni ho?

Non ho mai intrattenuto con la mia età rapporti di tolleranza.
Due decenni fa la Tav esisteva, ed ero io nei confronti del mio tempo biologico.

Avevo dieci anni.
Era l'estate del '90, in vacanza con l'allora mia amatissima amica.
Portavo la terza di seno, i capelli lunghi, la minigonna cortissima e la pelle abbronzata. Andavo sulle moto, uscivo la sera, frequentavo una comitiva dove il più piccolo aveva diciassette anni, mi innamorai di un capellone riccio e chitarrista (la catena del karma non si spezza!) che fu il mio primo fidanzato ufficiale per tre anni. Talmente pazzo che quando le vacanze finirono dopo qualche giorno me lo ritrovai sotto casa. Trecento chilometri di viaggio in autostrada sopra una vespa bianca 50 HP.
Ma prima di lui, sempre lì in vacanza, conobbi un militare ventenne.
Mi piaceva suscitare l'effetto sorpresa riguardo la mia età.
Adoravo impelagarmi nei discorsi degli adulti senza essere penalizzata da un accidente come gli anni che mi appartenevano solo per imposizione e non per un'effettivo adempimento alla mia natura. Insomma: avevo dieci anni ed ero biologicamente, ormonalmente, tendenzialmente donna. O comunque donneggiante.
Oggi ci stiamo abituando, da qualche tempo cominciamo, forse per sfinimento, a tollerare bimbette che fanno benissimo le donnine. Ma vent'anni fa una decenne era una decenne e basta, ascoltava Cristina D'Avena e, seppur di nascosto, intesseva storie d'amore tra Barbie e Ken. Vent'anni fa era difficile smascherare una decenne in un corpo di ventenne, tanto era insolita la questione.
Così una sera che il militare fece per baciarmi, forse improvvisamente assalita da una qualche paura della giusta misura di una bimba di dieci anni, gliela dissi, la mia età. Mi guardò di grado in grado prima sorpreso, poi perplesso, quindi scandalizzato, inorridito, e infine, incazzato nero, scappò via.

Ad ogni modo, è così che ho sempre fatto. Non ho mai guardato la mia vera età. L'ho sempre occultata, aiutata da questo mio corpo maturo da quasi subito.
Sono stata davvero per poco bambina, incantata da quel mondo più grande di me che prometteva avventure, libertà ed eccitazione (prometteva solo, constatai dopo)

Oggi forse sconto questa specie di oltraggio al tempo naturale.
Oggi mi chiedo: ma che fanno le trentenni?
Di cosa parlano, per cosa si eccitano, cosa vedono guardando avanti;
camminano ancora a testa bassa o hanno vinto le loro paure;
cosa indossano, quali sono i loro miti, dove vanno la sera;
di cosa si innamorano, cosa le indigna, cosa le fa ridere a crepapelle;
dove stanno andando?
Senza di me.


Oggi, che cinque giorni su sette rimango a casa, con Sofia, e se esco è con e per Sofia, solo passeggiate solitarie e color pastello ai parchi; oggi che le mie conversazioni le intesso esclusivamente con i miei vicini di casa tutti più o meno sessantenni (ma quant'è bella Sofia, quant'è brava Sofia, quant'è grande Sofia), o con le maestre (Sofia ha fatto questo, ha mangiato questo, ha detto quest'altro), o con il macellaio, il panettiere, il salumiere (Sofia, guarda che ti do; per Sofia, Signora, guardi che le do), e tutto, ogni iniziativa della mia vita, sembra implodere in Sofia.
Oggi, che la mia vita sembra non c'entrare per niente con queste due generazioni che così bene si spalleggiano e per intenti mi toccano solamente di striscio (sessantenni e duenni pare sappiano benissimo come annullare il gap);
ecco, io oggi rivoglio i miei trentanni.


Trent'anni, cazzo, e sembro na' vecchia.

26.6.11

Vecchio volpone

Uscita congresso MPA cui il Riccio è stato costretto a partecipare per lavoro.

"Riccio, com'è andata? di cosa discutevano? chi c'era?"
"un cumulo di merda!"
"ah, bene, e per il resto?"
"per il resto...non so...c'era la Cucinotta"
Lo sguardo torvo e incazzato causa gelosia-leièpiùfigadimeetuhaiosatoguardarla-autoindotta scatta all'istante.
"non ti preoccupare: era lontana e non ho potuto toccarla"
Poteredelcristallodilunavieniame mi assale mentre lo fulmino.
Ride, "ma che! fa cagare. tutta smilza e ossuta. tu sei più bona!" e mi bacia.
seeeeee.

Ad ogni modo potere del cristallo rinfoderato.

Quel genere di cazzate che, dall'alto dei miei trent'anni suonati, tutt'ora gradisco alquanto.

25.6.11

Quello che non so di te


Gli amanti sono sarti.
Il loro primo gesto, portando ciascuno la propria tela, è di porgerla così com'è l'uno all'altro. Il secondo è di farne una. Un'unica tela.
Il disegno comune.
C'è quel momento, iniziale, fatto di parole fitte senza sosta, sotterranee e private, che muove su frequenze silenziose da dove si beve, e quell'acqua disseta non so bene quale terra ma che a sapere l'uno dell'altro, di quello che prima non si conosceva e mancava, qualcosa dentro la risolve. Io conosco te e mi disseto. E su quella tela escono parole e disegni che mai avremmo pensato di possedere, di potere concepire.
I due sarti si mettono lì, fitti fitti, anche a costo di perdere un pò la vista nell'attenzione che hanno perché ogni punto della tela venga messo bene e narrato.

E anche noi in quei giorni un po' di vista l'abbiamo persa. La gente ci poteva vedere solo le nostre teste, messe chine sulle storie che dovevamo raccontarci.
A parlarci di quello che andavamo cercando, di quello di cui avevamo fame, ci rivelavamo a noi stessi parlandoci, un grumo confuso di partenze e di arrivi di tutto quello che non avevamo mai detto. 
Abbiamo bevuto tanto, e cucito anche, nonostante molto del fondo sia rimasto muto, e va bene così. Perché quello che non so di te è la parte che mi crea più languore, in quel posto che a rimanere sempre vuoto tiene in piedi la voglia di colmarlo. Spinge in avanti a voler tessere.





Ma poi ad un certo punto della loro storia e senza motivo i sarti si alzano dalla sedia, lasciano sul tavolo ogni cosa. Non hanno più voglia di star lì a parlarsi, a tessere storie loro, a dissetarsi. E via.
Le loro teste non più chine si levano alte e le parole emergono dal silenzio, su frequenze di superficie stavolta riconoscibili a tutti.
Quel dialogo, che prima tesseva, ora si spegne. E' come se, nonostante il disegno sia ancora incompleto, non si avesse più l'urgenza di cucire.
Magari dopo...

Ma perché?
Perché se abbiamo ancora voglia di bere, di sapere dov'è che poggiamo, io e te adesso non parliamo più?





Agg. La foto qui sopra l'ho pescata qualche anno fa dal web, quando ancora di web non ne capivo una mazza. La adoro. Da sempre. Perciò ho temuto d'aver infranto qualche copyright non sapendo dove reperire la fonte.
E invece eccola qua la fonte: Giancarlo Malandra e nello specifico Mani di sarto 

15.6.11

New entry

Sofia è Signora di tutte le terre emerse e sommerse, conosciute e non; tutte le creature posate su questo mondo, a parte la sua Santa Madre, sono vassalli, valvassori, valvassini e nient'altro, e usufruiscono indegnamente di tutto ciò che Le appartiene per diritto incontestabile.
"Opiiiiiiaaaaahh!!!" battendosi selvaggiamente la pancia, che non vuol dire altro che "mio", è il grido di guerra che Vostra Signoria lancia se qualsiasi oggetto alla portata della sua acutissima vista viene inopportunamente anche solo preso in prestito.
A quel gesto ogni vassallo, valvassore, valvassino che voglia scampare all'arma ultrasonica a Sua disposizione è pregato gentilmente di desistere e lasciare che l'oggetto torni alla sua legittima proprietaria, grazie.
Asia, no. Asia non ha nulla a che vedere con maniacali prese di possesso. Asia prende con la noncuranza del selvaggio prima dell'avvento della proprietà privata, con la stessa innocenza dei confratelli francescani, e con la stessa limpidezza accetta senza evidenti reazioni il fatto che in qualsiasi momento "Opiiiiiiaaaaahh!!!" le possa togliere tutto.

Per la stessa questione di diritto di reggenza autoproclamata, per Sofia è lesa maestà se qualcuno tenta un qualsiasi approccio con Sua Santa Madre. Anche solo un vago tentativo di condividere l'aria antistante può costare il "tagliategli la teeeeesta".
Asia invece non ha inclinazioni maniaco-ossessive, non dipende da nessuno se non da se stessa; se le è consentito partecipa e condivide i momenti, altrimenti con, per la sua età prematura, serafica compassione buddhista amici come prima: mi faccio la mia vita.

A Sofia le si deve ogni briciola di attenzione, ogni neurone che sia sopravvissuto al suo cieco e disumano sfruttamento. Vuole essere stimolata, solleticata, divertita, punzecchiata, lodata, coccolata, accompagnata, protetta, confortata, istruita, lavata-cambiata-mangiata-addormentata.
Asia invece campa di niente: pochi gesti, poche attenzioni. Il minimo per non dirsi eremita del mondo.

Asia gioca freneticamente mezz'ora, poi si riposa. Si rimette a giocare, e poi di nuovo riposa.
Sofia è un fiume inarrestabile, fonte attiva tutto il giorno di energia rinnovabile, tutto il giorno senza interruzione tutto il giorno senza interruzione tutto il giorno senza interruzione (urlo di Munch)

Asia scompiglia un po', quel po' che manifesta la presenza di gioia e di attività in una casa.
Niente in confronto all'uragano Katrina che Sofia libera dentro casa ogni dieci minuti.

Asia è balsamo per una donna ormai patologicamente assuefatta e acciaccata dal presenzialismo di una figlia ai limiti dell'invasione barbarica.
Asia è tutto ciò che una mamma sull'orlo di una crisi di nervi potrebbe desiderare.
Se non fosse che è una gatta.

12.6.11

Felicità è...

- buttare fuori di casa Riccio e figlia. Gentilmente "a presto", con un sorriso di cortesia e le mani che spingono fuori.
  Buttarli fuori dalla testa e non avere alcun senso di colpa.

- mettere musica, al volume che permette di non sentire altro, la stessa che ascoltavo dieci anni fa, cantavo e ballavo e nient'altro. La stessa aria pregna e nient'altro. 

- togliersi di dosso pesanti seconde nature che il tempo ha incollato per bene addosso, scarpe, elastici per capelli, maglietta e jeans. E farsi una doccia fredda senza tempo, sentirsi antica e nuova come l'acqua.

- camminare scalza per casa e lasciare cadere dietro scie di gocce. 

- guardare le gocce e ignorare la telefonata di sollecito da parte di qualcuno.

- fumare a casa senza colpa e goderne.

- prepararsi per uscire, con lo stesso godimento di qualche anno fa, di quando era l'attesa di quello che sarebbe successo dopo a portare l'emozione e non il dopo in se e per se, il rituale della preparazione davanti allo specchio.

- mettere la matita nera sugli occhi, gli orecchini che preferisco, le scarpe con cui cammino, rivestirsi di tutto quello che da sempre mi appartiene.

- dimenticare del lupo che mi abbaia ogni istante in pancia, lo arrovella.

- sentirsi dentro la propria pelle.

- sentirsi bellissima.

- sentirsi di nuovo.


A trent'anni suonati, una figlia, un Riccio, una casa, e una testa che comincia a fare bizze,
felicità è tornare ad avere quindici anni. 
Con quella stessa leggerezza tipica di chi se ne fotte di tutto, tranne che della propria straordinaria, unica, mozzafiato esistenza, e il senso di colpa è solo una sfiga che tocca ad altri. 
E avere l'impressione che sia così per sempre.

Almeno per quell'unica ora ancor più rara di ogni morte di papa.

7.6.11

L'"anch'io" rende liberi, ovvero: La gallina è pur sempre un animale intelligente

Va bene, che io sia ipocondriaca è ormai di pubblico dominio, no?
Lo sapete tutti, l'ho detto, detto e ridetto, magari un po' masticato forse, come chi certe magagne della propria persona fa fatica ad esporle e se le tiene strette e imburkate per una specie di pudore ai limiti dell'integralismo.
Dunque lo sapete. 
Ma sapete fino a che punto? 
Fino a che punto una paranoia può fare di un essere umano responsabile, lucido e illuminato, una scamorza affumicata?
Ve lo dico io: fino al punto di vagare ansiosa e preoccupata per casa con la stessa eleganza di una gallina. Perché in quei momenti di ansia ingiustificata me ne rendo conto di assomigliare ad una gallina. Per capacità intellettiva e motoria.
Razzolo per casa in cerca di qualcosa che mi dia sollievo dall'ansia e più non la trovo più mi sale l'ansia; e più mi sale l'ansia più aumentano i sintomi che mi hanno procurato ansia; e più i sintomi si acuiscono più l'ansia...
E via così, in un circolo che fa razzolare in tondo la gallina.  
Inutile discutere sui perché che sottendono il mal razzolare.
Qui voglio discutere di come la gallina possa togliersi di dosso quella ridicola camminata ruzzolante, quel piumaggio impolverato e quell'inutile chiocciare fine a se stesso e ricominciare ad avere una parvenza umana, senza ricorrere a palliativi lexotanici (la gallina sarà pure onnivora ma c'è un limite a tutto).

La risposta è: anch'io.
Anch'io: balsamo per la testa che fuma, interruttore primo che spegne ogni paura.

Ho scoperto che l'unica mia arma a disposizione per risolvere questa faccenda è quella di prendermi per il culo. Insomma guardarmi da un punto lontano da me e banalizzare il mio comportamento. Riderne e insieme averne, come dire?, misericordia. Come fa un genitore con le piccole paure immaginarie dei figli.
Ma perché questo sia veramente efficace c'è bisogno che qualcuno rida assieme a me.
Perciò ne parlo. Discuto dei sintomi, delle sensazioni, del circolo dentro al quale rimango imbrigliata.
Di come la gallina sia il mio animale totemico.
E qualche giorno fa mi è capitato di parlarne con una donna a mio parere grande: forte, energica, intelligente. Perciò attendibile.
E lì mi regala quella formula magica, quel miele odoroso di quiete, quel "anch'io".
Mi dice che anche lei, tanti anni fa, ha provato lo stesso disagio. E ci credo perché, mentre racconta, in quella donna mi riconosco, sono io.
Mi dice che è la paura che nasce quando si hanno figli.
Lo so: alla fine la più grande nostra responsabilità è quella di non abbandonarli. Ma in questo caso non ci sono promesse che tengano, azioni giuste da compiere, doveri da assolvere. Questo tipo di responsabilità non ha nulla a che fare con l'impegno e le scelte e il controllo sul proprio destino. Qui tutto è affidato al caso.
E ci rimane quindi o di abbandonarci fiduciosi o dimenarci ansiosi per il fatto di non avere potere e controllo sul caso.
Abbandonarmi fiduciosa è quello che sto tentando di fare.

Mi dice che poi passa.
Questa donna credo mi abbia donato il conforto del fiume. Cioè il sollievo che dà sapere che tutto si muove, viene e va via, con la stessa delicatezza dell'acqua.



Dio! Parlare, comunicare, esporsi, buttare fuori tutto, dare alla luce quello che all'ombra si guasta. Dio che sollievo!
Perché c'è sempre qualcuno che raccoglie, che usa parole giuste, che toglie quel senso di isolamento che affianca in automatico le nostre debolezze.
Perché il potere catartico della condivisione smuove le montagne. O i macigni.

E anche perché quando una gallina parla della sua gallinitudine significa che ha coscienza di sè.
E in quel momento il suo chiocciare comincia ad essere poco più umano e sensato.



Nota al post: devo andare a lavorare!