14.10.15

Un divano

Sofia torna da scuola e me ne racconta alcune stranezze, come quando dopo aver finito il lavoretto il segnale da dare alla maestra è quello di mettersi a braccia conserte.
Evidentemente braccia conserte fa ancora parte del corredo scolastico, assieme alla scrittura in corsivo, il panino al prosciutto, la compagnetta bastarda e l'astuccio pieno di colori.
Lo racconta con un'incognita sugli occhi, a cui io non so rispondere.
È quel genere di cose incomprensibili che bolliamo come stranezze, ovvero singhiozzi tra un'aderenza alla nostra normalità e l'altra.
Io guardo la nostra normalità e mi sembra che Sofia ci cresca dentro in pienezza.

Ha un papà che lavora a intermittenza, il libero professionista di questi tempi: nessun gadget di lusso e tempo da gestire.
La va a prendere ogni giorno all'uscita da scuola. Infila chiavi e cellulare in tasca e va. Ama questo appuntamento, lo chiama rito.
Piccole, sciocche, meravigliose felicità che fanno quotidiano e che noi chiamiamo rito.
Si fottano allora tutti i gadgets di lusso di questo mondo.
Mangiamo, torniamo da scuola e ne facciamo dei riti. L'amore non è un gadget.

Ha un nonno che le invecchia attorno; lei cresce, lui ridiventa bambino.
Sofia cerca le parole nel vocabolario che sta costruendo, mio padre le perde nella memoria ingrigita. Un giorno si incontreranno a metà strada e avranno la stessa età.
Ho una foto di lui rosso paonazzo mentre posa il primo sguardo su sua nipote. Ha il sorriso tirato e le mani sui fianchi, scomode; è evidente che non sa bene dove metterle di fronte a tutta questa bellezza tornata improvvisa da vecchio.
Mi sa che l'amore a volte è anche questo. Non riuscire a trovare un posto a delle mani divenute all'improvviso scomode. Nemmeno dentro a una foto.

Ha una nonna che prima che Sofia nascesse badava a ripetere che nessuno avrebbe mai dovuto chiamarla nonna.
Le è sembrato una stupidaggine fin dal primo momento, quando le ha pulito la sua prima imbrattata di cacca nel mondo.
Adesso le prepara le lasagne la domenica, a Carnevale le compra il vestito di Frozen e sceglie il tema delle mutandine in base ai cartoni del momento.

Ha una zia che forse ha capito ancora poco dell'amore. Qualche volta le è arrivato addosso, ma le è rimasto impigliato da qualche parte nelle sue paure. Non è arrivato mai a scioglierle le ossa.
Cammina ossuta e spigolosa. Ma a volte, quando parla alla bambina, si piega su di lei e le parla a bassa voce, come se fosse un discorso segreto tutto loro, segreti come lo zaino è troppo pesante, hai sonno, prima la scarpa destra o quella sinistra, comunque un discorso tutto loro dove c'entra l'amore.

Io mi guardo attorno e benedico.

Ognuno di noi cresce nella normalità dei propri gesti quotidiani, sagome ben assestate sui divani.
Nessuno mai dovrebbe prenderne le misure, dire bene o male di una sagoma che non gli appartiene, visto che è già complicatissimo farlo in modo poco lontano dalla boiata con le proprie, si sa.
Ma ad ogni modo tra le miriadi di divani ce n'è qualcuno beccato, usurato, macchiato, qualcuno buttato accanto a un cassonetto e alla vista si riconoscono. Son quelli che per tenere attaccate giusto due sagome ci vuole tanta stanchezza.

Io perciò mi guardo attorno e benedico.

Sofia torna da scuola e mi racconta di alcune stranezze che ancora non le appartengono.
So già che un giorno smetterà di parlarmene, quando le stranezze avranno lasciato le sagome sul suo divano, accolte dalla sua normalità.
Fra qualche tempo si metterà a braccia conserte senza chiedersi più il perché.
Alla fine la vita è una storia di accoglienze. Alcune scomode, ma nel mucchio per lo più piene di bellezza e di grazia.
Io mi siedo sul divano, alle spalle le nostre sagome, mi guardo attorno e le benedico tutte.