27.5.11

Così: incasinata con la coda

Scrivevo questo.
Io non ho molta memoria.
In testa conservo diapositive scoordinate mancanti totalmente di consecutio temporum che dia loro una qualche causalità e logica. 
Ricordo molto bene una donna che disse: "colui che non ha memoria è un pazzo".
Ecco, io sono colei.
Faccio fatica a costruirci una storia con le diapositive di cui dispongo.
E mi piacerebbe ritrovare nella mia storia quello che sono oggi, perché vorrebbe dire che ho già vissuto questo momento e che sono stata capace di superarlo.

Io però non ricordo affatto di essere mai stata così.
Così.
Ecco. Al "così" mi sono interrotta. 
Stavo per cedere ad un così a mo' di sacco di iuta, capiente contenitore di retorica e arma a doppio taglio: lo avrei riempito di mie pecche, limiti, mancanze che mi frenano in questo periodo di mamma incasinata, palesando qui, quasi come fosse un rito di espiazione di colpe. 
Palesare significa rendere manifesto, dunque portare a conoscenza, ciò che non si vede. Smascherare per poter sistemare.
Ma in questo senso non sarebbe servito. Sarebbe stato solo un atto retorico nei confronti di me stessa. 
Io so già. Che mi serve ridirlo, rivederlo, palesarlo?
Al "così" mi sono interrotta. Ho lasciato aperto il sacco, ma ho cercato nuovi contenuti. 

Avete presente "Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi" ?
Violet è la straordinaria inventrice che annuncia ogni suo atto creativo legandosi i capelli con un nastro.
Io lo faccio sempre. Ogni volta che mi sento assalire da quei moti forti, quelli che mi smuovono da certe azioni stagnanti, mi lego i capelli e via. Non so. Forse, portando sempre i capelli lunghissimi, quasi fosse una coperta di conforto, legandomi i capelli mi dico che non ho bisogno di conforti, di mollezze, ma che devo muovermi, e spedita per giunta.


Quando ho partorito Sofia, non ho fatto su di me un atto di forza superando l'ipocondria e le mie idiosincrasie nei confronti del dolore fisico per niente. 
Non mi sono costretta a partorire con dolore per niente. L'ho fatto perché già in quel suo primo momento, ho voluto dire a Sofia "io, per te, sarò; io, per te, avrò"
Due anni fa per Sofia sono uscita fuori da me per darle il meglio.

Oggi non è cambiato nulla.
Sono un casino come non lo sono stata mai.
Ma non lo dico, non lo paleso, non voglio dargli più voce. 
Prendo il sacco e gli metto le cose migliori che ho da offrire a questa bimba.

Così.
Così mi sono legata i capelli, ho messo la musica a tutto volume. Ho riso.

E preparo per domani.
Per Sofia.
Sofia che non so perché mi ha reso fragile.
Che però mi costringe a superarmi, a riempire il "così come sono" di contenuti più giusti.
Che mi fa legare i capelli.
Sofia che domani fa due anni.



20.5.11

Tre anni dopo, lo stesso pasticcio

Quando tre anni fa Veronica e il Riccio si incontrarono per la seconda volta, al locale dove lui aveva appena tenuto un concerto, ancora tutto sudato, eccezionalmente riccio, e con in mano un dito di whisky ambrato, le disse: "mia mamma si chiama Maria, mio papà Giuseppe, io ho trentatré anni e fra due mesi l'avrò scampata".
Quel genere di frasi, assieme alle altre, creò per tutta la notte in Veronica fragori imbarazzanti di risate gallinacee e un colossale, trascinante, incontrovertibile innamoramento.

In effetti due mesi dopo il Riccio era ancora vivo se a mezzanotte esatta, sentendosi chiamare dal balcone di casa sua, si affacciò e rise.
Veronica allora era un'universitaria cronicamente afflitta da mancanza di capitale e tutto quello che portò per spegnere una candelina fu un pasticcio mignon panna e fragole che poi divisero.
Festeggiarono assieme per tutta la notte il fatto che il Riccio fosse ancora vivo, scampato alla maledizione.

Non avevano niente. Solamente quel pasticcio mignon panna e fragole da dividere. Ed erano felici.


Oggi Veronica, ancora più cronicamente afflitta da mancanza di capitale, pensa di replicare quella serata e di far spegnere la candelina al Riccio in un pasticcio identico a quello di tre anni fa.
Veronica, in un moto di ottimismo, crede che certe bellezze sopravvivano a qualsiasi cronica mancanza. 
E che dividere un pasticcio mignon panna e fragole possa ancora rendere felici.






Auguri.

  

18.5.11

E tu, donna, sarai discriminata

Siamo nel tempo del progresso cieco e inarrestabile.
Non del progresso inteso come miglioramento, crescita, sviluppo.
Siamo nel tempo del progresso per il progresso, cioè del progresso fine a se stesso. "Stiamo tutti correndo, ragazza, non vedi? Vieni a correre anche tu" "Ma dove state andando?" "E chi lo sa, ragazza. Intanto si corre".
Siamo nel tempo in cui se non corri sei un esiliato sociale.
Siamo nel tempo dell'attività forsennata a tutti i costi.
Siamo nel tempo dove il lavoro è una condizione esistenziale: se non lavori, non sei.
Perciò siamo nel tempo dove il lavorare non è un momento importante in mezzo ai tanti momenti importanti dell'individuo: il lavorare è il Momento per eccellenza. Il resto sono pause che arrestano il lavorare.
Siamo nel tempo dove si lavora per ottenere gli strumenti per lavorare: la macchina per andare a lavorare, la moto per non arrivare tardi al lavoro, i vestiti per il lavoro, i giocattoli per occupare i pomeriggi dei nostri figli a casa, ché se fossimo presenti starebbero fuori a ruzzolare nel prato o al più giocherebbero con un sasso trovato per terra.
Siamo nel tempo dell'assenza delle figure genitoriali come fruitrici di cultura perché disperatamente impegnati a lavorare per la cultura dei nostri figli affinché in futuro possano trovare un degno posto di lavoro. Un paradosso.
Siamo nel tempo in cui si lavora asininamente per guadagnare e poi asininamente spendere la Domenica al centro commerciale.
Perché questo è il tempo del centro commerciale, spazio vitale dell'uomo che lavora una settimana intera per poterne nel giorno di riposo usufruire.
Perché la Domenica è ancora il giorno del Signore, la cui Parola fa din din.
Siamo nel tempo che, al solo leggere queste mie parole, molti di voi, chi per un motivo, chi per un altro, staranno rabbrividendo.



E' in questo tempo che si inserisce il mio colloquio di lavoro.
Ci sono la responsabile dell'agenzia di collocamento e l'esaminatore responsabile dell'azienda che mi deve assumere.
L'esaminatore ha due occhi azzurrissimi, uno sguardo di chi ha visto tanto, un po' stanco ma comunque agguerrito. E' quel genere di sguardo che mi piace: potrebbe appartenere anche ad una persona cinica ma che gioca comunque a viso aperto.
Ci guardiamo a fondo negli occhi, ci facciamo simpatia.
Prima domanda: "E' sposata?"
Seconda domanda: "Ha figli?"
...
Qui finisce il colloquio. Dopo è solo un farfugliare inutile. Sa, non diamo part time - sarebbe ideale, ma se non è possibile sono comunque disponibile - la Domenica si lavora più che negli altri giorni per recuperare - non importa, un giorno vale l'altro - non ammettiamo dunque assenze, lo so poi come vanno queste cose: la Domenica le mamme prendono la malattia...- sì, ho capito perfettamente cosa intende dire -...ecco! 
La responsabile dell'agenzia interviene chiedendomi quale siano le mie intenzioni riguardo l'università.
- Non si preoccupi, Lei che al primo colloquio ha usato su di noi il termine smistare, verrete smistati come fossimo ovini e suini, non si preoccupi, non ho intenzione di studiare, perciò di chiedervi una volta al mese un giorno per l'esame. Sono già asservita quanto voi alle esigenze dell'Azienda che ci fa parlare tutti col plurale maiestatis -

Qui si sta parlando di tempo vitale, io lo so, lo sa l'esaminatore.
Loro vogliono il mio intero tempo vitale, ma io il mio tempo vitale lo dovrei un po' anche a Sofia.
Io lo so, lo sa anche l'esaminatore.

Io dunque non posso correre: ho un carico di quindici chili con ciuccio e pannolino.
Sono ufficialmente un'esiliata sociale.
Anche se solo per fare la commessa (ops!, scusate, 'addetta alle vendite') di un centro commerciale.

Colloquio finito. Dieci minuti al massimo. Il più breve della storia.



L'esaminatore ha una cinquantina d'anni.
Ha figli.
E' una donna.

14.5.11

La palla

Siamo nel pieno dei terrible two, campo di battaglia furibondo.


Tra una rara espressione d'affetto e l'altra di vago bisogno di sicurezza, per il resto, nell'arco di un'intera giornata, è un interminabile, continuo, ultrasonico urlo.
Sofia urla. Cioè, Sofia canta, parlocchia, balla, bofonchia, mima, imita, ma, se dovessi riassumere con un'unica voce la sua personale maniera di comunicare, direi che Sofia urla.
Ha di recente scoperto la forza del portare all'estenuazione per ottenere eventuali oggetti del desiderio.
Ora so che la tortura cinese non è mica il frutto di un atteggiamento degenerato in seguito a sovrastrutture sociali esacerbate in seno allo sviluppo delle civiltà.
La tortura cinese è una naturale acquisizione metodologica dell'angioletto di casa. Forse addirittura una sua naturale disposizione.


Giorni interi a tiranneggiare urlando sui miei già precari equilibri psichici. Giorni interi a spuntarla urlando per intercessione dei miei tentativi di difendere i suddetti già precari equilibri psichici.
Fino a che ieri sera, sul bordo del letto: "payya!".
Palla.
"No, amore, a letto no la palla: è sporca".
Paaayyyaaa!!!
"No, amore, te l'ho già detto: è sporca e non può venire a letto con te"
Paaaaaaayyyyyyyyyyaaaaaa!!!!!!!


Ecco. E' qui che in un istante da oggetto portatore ufficiale di spensieratezza, la palla si è trasformata in questione di principio. Per Sofia. Per me.
In un lampo, pensando ad un cedevole sì, ho immaginato Sofia a quattro anni picchiare il compagnetto al parco per un posto sull'altalena, a dieci diventare la bulla dell'istituto elementare, a tredici essere bocciata agli esami di terza media, a quindici scappare a Berlino con un cinquantenne musicista russo con la cresta, a venti tornare a casa a chiedere cento euro, "investimento per un progetto epocale, rivoluzionario, audace, con sicuri e ampi margini di sviluppo sulla scena internazionale del mercato" (bigiotteria di bassa lega in una bancarella a Berlino).
Perciò: no! la palla no!

Ho visto l'arcobaleno sul viso di Sofia lasciare poi il posto ad un rosso violaceo.
Urla strazianti, singhiozzi imploranti, muscoli tesi allo spasimo.
Mezz'ora.
Finché le ho preso il braccio e le ho urlato di smettere di urlare. Il paradosso della rabbia.
E poi, impotente e frustrata, le ho chiesto di scegliere: o calmarsi con Winnie the Pooh o la palla a letto e la mamma furibonda che le toglie la parola.
Siamo stremate. Lei succhia forte il ciuccio. Io vado fuori a fumarmi una sigaretta.


720 circa.
Le notti che abbiamo passato assieme.
Le notti in cui sono stata il solo e vero oggetto transizionale di Sofia.
720. Tutte da quando è nata. Meno che questa.
Quando torno da lei, dorme. Dorme e singhiozza.



Siamo nel pieno dei terrible two, campo di battaglia furibondo e impietoso.
Dove però non si fanno mai vincitori.

Qui ci sono solo una bimba che dorme con ancora le ciglia appiccicate e bagnate e una mamma con un misto ingestibile di rabbia e senso di colpa.
In mezzo a loro una palla.
La loro prima questione di principio.

4.5.11

Il mantra di Penelope

Io sono una donna moderna.
Il mio tempo è il nano secondo. Faccio la doccia in un nano secondo, le pulizie in un nano secondo, la cucina in un nano secondo, le bollette, le uscite, le telefonate, la pipì, il trucco, le letture in un nano secondo, pensare a come sterminare quella blatta sul muro in un nano secondo. Scrivo in un nano secondo.
Dimentico cellulare e chiavi, anche questo in un nano secondo.
Mi tengo costantemente, devotamente, doverosamente aggiornata, che non si dica che nel tempo del progresso illimitato io rimanga indietro. Riviste, rotocalchi, rubriche, approfondimenti, letture di ogni genere, affermazioni e confutazioni, persino Facejunkfood, perché pare che per coltivare il senso critico ci sia bisogno di stare al passo pure con la spazzatura.
Dopo la sbornia del boom economico di qualche decennio fa, avendo scoperto sulla pelle che è tutta una bolla campata per aria pronta ad esplodere e lasciare tutti nudi e bagnati, spendo il giusto, spendo per la qualità, per il resto riciclo, tengo con cura, e faccio vintage.
Dopo la sbornia dell'industrializzazione di qualche decennio fa, avendo appreso del radicato degrado ecologico e disumano, uso pochi prodotti chimici, giusto quelli che mantengono sotto controllo la moltiplicazione della vita sul gabinetto, faccio la differenziata e boicotto con rispetto ma con forza il cinese e lo sfruttamento delle multinazionali.  
Dopo la sbornia del sesso libero e insieme del femminismo di qualche decennio fa, avendo ormai equilibrato tutte quelle forze rivoluzionarie e dionisiache, oscillo, culturalmente sostenuta, tra il gattamortismo della vita sociale patinata di buone maniere e l'essere predatoria e disinibita dentro il talamo nuziale.
Vesto tutto per ogni occasione e umore. Tacchi, ballerine, pantofole, gonne, basse, medie, alte, abitini, jeans, pantaloni alla caviglia, larghi, stretti, alti, in vita, grembiuli, creme e pelurie invernali.
Tengo Sofia da sola, faccio la spesa da sola, vado al bar da sola.
E tra qualche tempo potrò dirmi di aver abitato tutte e due le facce della maternità, la mamma che sta a casa a tempo pieno, maternità mariana devota e sacrificale in nome della buona e feconda prosecuzione della specie, e la mamma che lavora, maternità mariana poco poco meno devota e sacrificale, o forse sacrificale in modo diverso, con tacchi e rossetto.

Perché oggi la donna è tutto. Deve essere tutto. 
Perché oggi, se la donna è moderna, deve dimostrare che Dio porta le ovaie e le poppe. 

E io sono una donna moderna.

Io sono una donna moderna.

Io sono una donna moderna.

Io sono una donna moderna...

...

...Io sono una donna moderna...

...Io sono una donna moderna...

...

A distanza di due mesi, di notte tengo ancora le luci accese, di giorno mi aggiro per casa come un'anima in cerca di ristoro, a volte selvaggia ed irritata, altre mesta e scorata, vampate di calore, poi brividi di freddo, irrequieta e apatica, in costante, inconsolabile, inesauribile, circolare, penelopenica attesa.
Che il Riccio torni e sbatti fuori da questa nostra casa i malumori venuti con la sua assenza a predare.



Io sono una donna moderna.

Io sono una donna moderna.

Io sono una donna moderna.