Si è cercato di misurare l'istinto di sopravvivenza e di rispondenza degli esseri viventi di fronte ad un pericolo o ad una minaccia alla propria incolumità.
Un cane viene rinchiuso in una gabbia alla quale per metà viene liberata una scossa elettrica.
Il cane corre verso la metà quieta. Tutte le volte. Se a sinistra della gabbia viene mandata la scossa, il cane si rifugia a destra. Se la scossa è a destra, lui va a sinistra.
Fino a che si è deciso di distribuire la carica all'intera base della gabbia, naturalmente chiusa.
Il cane ha inizialmente cercato di fuggire, si è ribellato, smanioso, disperato. Ha lottato per un po'.
Per un po'. Poi si è lasciato vincere da quello che non aveva fine.
L'esperimento si conclude con l'apertura della gabbia. E il cane adagiato, inerme, rassegnato.
Di fronte alla possibilità di fuga e di libertà risulta irrimediabilmente vinto.
L'esperimento dimostra come di fronte ad un prolungato assoggettamento, l'istinto di sopravvivenza e di resistenza di un individuo, tempo e modo adeguato di reazione, prima o poi si spezzino.
Per assuefazione al dolore.
In macchina. In fila. Il caos. Il carnevale quotidiano di forme e di bombardamenti del suono all'ennesima potenza.
E perché mai non si dovrebbe star male?Perché mai non si dovrebbe sentir l'aria mancare, la testa esplodere, l'impulso di andare, lesti, andare, andare?
Il suono rappresenta un accadere. Se il suono è forte, l'accaduto è stato grande, come l'esplosione di un qualcosa di infiammabile o il rombo di un aereo.
Ma qui non c'è rispondenza tra il suono e l'accaduto. Qui non succede niente. Tutto è fermo. Eppure c'è un brulicare feroce di lamiere, di motori, di clacson e motorini che cercano inquieti alternative. Ma tutto continua ad essere mostruosamente fermo.
Allora la percezione sta leggendo una lingua che non è normativa, è fallace: la logica va in tilt.
Perché mai non dovrebbe esserci disagio?
Perché mai il mio corpo non dovrebbe dare segni di questo squilibrio, di questo baccano della percezione?
Mi guardo attorno. Sembra che il fastidio sia solo mio e di pochi altri.
Per il resto è un ammasso di rassegnazione. Una signora ha la testa china. Un signore guarda annoiato. Un ragazzo parla di qualcosa con qualcuno.
Se non fossi annichilita da dettami di comportamento, scenderei in strada e li scuoterei tutti, Geeeenteeee, dormite di quale sonno?, richiamare in tutti loro il normale, benefico, naturale senso di fuga. Da qualcosa che non si è voluto.
Forse lo chiamerebbero attacco di panico, questo.
Io dico che sono semplicemente ancora viva e mi ribello al fatto che lo spazio vitale sia stato divorato da quintali di lamiera cocente a cui non ho scelto io di partecipare.
Perciò se ho l'impulso di fuggire è perché sono ancora viva.
Il resto ha la malattia della rassegnazione, dell'essere vinti, che porteranno addosso persino a casa loro.
Così assuefatti, si riterranno sani, normali.
Non Panic, ma Aria
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