26.10.10

Ladies and Gentlemen: il tam-tam

tam-tam
fa nel fondo della mia pancia un tamburo improvviso, improvviso come il tuo decidere di lanciarti
tam-tam tam-tam tam-tam
un battere che nasce dal senso di meraviglia negli occhi fino ad arrivare alla pelle, ma poi torna indietro perché alcune immagini stanno nelle viscere per non uscirne più
tam-tam tam-tam
che si accorda al silenzio che stiamo facendo spontaneo perché niente, neanche l'aria che ti sta attorno, Sofia, ci sembra non dover essere spostata, ché anche l'uomo più meschino ha la decenza di ammutolirsi di fronte allo stupore per il sacro; e qui ora ce n'è, di stupore e di sacro
tam-tam
fa il senso di vertigine che adesso abbiamo addosso anche se è tutta tua questa vertigine, mentre cerchi l'equilibrio
tam-tam
è la voce della strada che si è appena aperta davanti a te e davanti a noi
fatta di nuove tue scelte, di nuove direzioni, ma anche di nuovi limiti
perché le catene si annodano dove si aprono le possibilità insieme ai voli
tam-tam fanno le catene, tam-tam i voli
e la grazia di questo tuo momento, anche questa fa tam-tam, quella delle cose nuove che regalano respiro, ci tolgono da dosso il peso dell'impotenza nel non poter più cambiare l'ormai
e oggi ci fa tutti nuovi, questo tam-tam ci chiama tutti ad esser nuovi come bambini, come te
e a cambiare pure direzioni
tam-tam 
fa questa nuova storia mentre si tesse dei tuoi passi, perché quando il corpo si muove disegna il luogo e il tempo della narrazione

e mi batte ancora il tamburo nello stomaco
tam-tam tam-tam
a pensarti finalmente libera
perché un corpo libero dà corpo alle scelte

i muri, le pozzanghere, la bicicletta, la sabbia, le strade larghe, le corse immotivate, i balli, i salti, le pietre, le scale, l'erba, le cadute,

tam-tam è l'emozione nella mia pancia per tutto quello che faremo
per ogni tua sinistra e per ogni tua destra
sinistra, destra, sinistra, destra, sinistra, destra,
tam-tam tam-tam tam-tam tam-tam tam-tam

simmetria e ritmo
i tam-tam di questo mondo


Si ringrazia la Riccio Entertainment per la gentile collaborazione

22.10.10

Prego, si stenda pure sul forno

"Riccio, sei un incapace, triste omuncolo senza spina dorsale, io ti disprezzo"; la voce arrancante e rotta come se avessi spine in gola. 
Il Riccio sorride. 
La reazione mi spiazza e adesso urlo: "Allora sai cosa fai? Prendi le tue cose, fai le valigie e torni al tuo paese"
Il Riccio scuote le spalle e sorride ancora, sprezzante, beffardo e liberato. 

Capita che per convincere Sofia ad addormentarsi (lo so: è una dichiarazione non priva di implicazioni meschine comportamentali) io debba fingere di dormire. Una pietosa finzione, un teatrino di bassa lega, purché Sofia mi lasci riprendere fiato almeno una mezz'ora.
Capita che impianti il teatrino oppressa da una prima mattinata piuttosto sfibrante e che di conseguenza la finzione diventi realtà: mi addormento davvero.
Capita che oggi il mio inconscio abbia punito i miei mezzucci da quattro soldi con questo sogno genere caso clinico Freud.
Al risveglio le spine ce le ho in testa.
Come fare a liberarmene velocemente, senza ricorrere a metaforiche pinzette tipo analgesici o colloqui psicoanalitici?

Comincio a pestare, affondare colpi sempre più precisi e metodici con una pietra, raccogliere i pezzi, triturare, inforcare, sbattere, dosare i colpi, premere, voltare e rivoltare. Infine ripulire.
E mentre la catarsi della mente arriva, ho sempre più la netta certezza che le frustrazioni si zittiscono quando entra in gioco il vigore del corpo. 

Ed è così che, durante questa soddisfacente e fruttuosa seduta terapeutica autogestita, nasce 

Amande: la nana dark (e sbrisolona)  







































125 g di mandorle finemente tritate
70 g di cacao amaro 
120 g di zucchero
3 uova (tuorli e albumi montati a neve)
100 g di burro ammorbidito 
1 bustina di lievito per dolci 
vanillina 

Le dosi sono il frutto di una mia libera interpretazione di due ricette differenti (torta alle mandorle+torta al cioccolato) assemblate. Sarebbe dovuta lievitare, vista la presenza del lievito. Così non è stato.
Poi si sa: la creatività prende strade che non possono essere controllate, si insinua in straducole che non abbiamo chiesto di percorrere, ma spesso premia.
La nana è profumatissima, dolce e vagamente amarostica, croccante&morbidissima, sbriciolona in modo imbarazzante.
La tazza qui sopra è piena di latte, compagno di vita della nana. La nostra cena. 

Squi-si-ta.
Parola di Sofia. 















La sua prima torta.

18.10.10

Non lo so

C'è un uomo seduto sul pancone di cemento che costeggia da un fianco il parco e dall'altro il corridoio che io e Sofia stiamo percorrendo in lungo e in largo.
Sarà un quarantenne e un poeta, mi dico, si vede da subito, da come porta il corpo e lo sguardo.
Gli passiamo accanto e Sofia gli va incontro, perché lui è un papà e ha due bambine, immagino una duenne (ormai ho imparato: i duenni sono alti come Sofia, possiedono il suo stesso vocabolario ma loro camminano) e una cinque-seienne (lo si vede da come siede senza moti scomposti accanto al papà).
Quando gli siamo di fronte, l'uomo allarga occhi, bocca e voce e guardandoci chiede a Sofia:
"E tu da quale pianeta provieni?"
Sono talmente assuefatta a rispondere alle tipiche domande che comunemente si porgono a una bambina, che a questa sono del tutto impreparata. Anche io allargo occhi e bocca, ma sorrido silenziosa.
Sofia ha già perso interesse e mi libera da un certo imbarazzante senso di spiazzamento.
Ci allontaniamo. 
Di nuovo sul corridoio in lungo, e poi in largo, fino a tornare accanto all'uomo.
Stavolta non Sofia, ma sono io a decidere di fermarmi.

"Ci ho pensato, e la risposta è: non lo so"
"...'non lo so', cosa?"
"il pianeta" 
punta l'indice in alto e
"il pianeta dei bambini è tutto loro, un mondo..."  
"...troppo lontano per sapere quale sia" 

Ci guardiamo.

Non ricordo altro.

14.10.10

Comunicazioni di servizio



"...Le conferiamo il titolo di Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare con (ride) 110 su 110 (si smarrisce) e lode (non sente)"

quella che "lei è la piccola" anche con le prime rughe, i calli e qualche torto, di quello marcio, di quello che per un po' ci allontana
quella che in effetti, quando cede, le trema il labbro come una bambina, ed è struggente come il cedere di una bambina, e che da sempre, ancora prima di Sofia, ha scavato nello stomaco la fossa che oggi ho riempito con mia figlia
quella che fa i passi con incertezza, come se questo suo incedere fosse il suo credo ormai, ma alla fine, incrocio dopo incrocio, alla fine poi ci arriva sempre
quella che esibisce, a volte infastidita, a volte rassegnata, i suoi non possedere e appartenere, ma che "mia nipote" le scappa proprio
quella che non parla, ma dalla sua carne si vedono tutte le parole che avrebbe da dire
quella che però ora è seduta davanti a me e non riesce a smettere di parlare e raccontare, ancora e ancora e di nuovo ancora quello che oggi abbiamo vissuto e che io ascolto come  se ogni ancora fosse cosa nuova
quella che mi parla, e a cui io parlo, solo per comunicazioni di servizio
quella che non glielo dico, ché non so farlo, ché è da tanto che non lo faccio
quella che è una tenerezza al cuore, e nodo
forse uno dei più grandi


12.10.10

Maternità


La verità è che ne sono invischiata fino all'osso, di maternità.
L'osso, dove più in fondo non c'è.
Che ci provo spesso, dico l'osso, a portarlo su altre strade, a farlo respirare di altre arie.
Ma è pregno di una sola immagine, e di tutti i suoi pensieri, che fanno le parole, che fanno le storie, che fanno le immagini.
E lo so che di alcune immagini ci si può anche ammalare.
L'unica nuova strada, l'unica nuova aria,
è ancora dentro l'osso.
A percorrere la strada che deve percorrere, finché l'immagine ci sta.
E poi esce.


Rido
ché mi imbarazzo a far vedere l'osso.
:)

9.10.10

Sofia's anatomy

Sospetto che Sofia abbia inalato un oggetto. Lo sospetto perché è una settimana che non respira malgrado tutte le cure del caso. O forse è il sospetto di una madre troppo sospettosa. 
Per una volta desidero essere smentita.

Policlinico. Reparto otorinolaringoiatria.

Il Riccio è andato incontro alla burocrazia, io sono seduta su una panca con Sofia che dorme appoggiata al seno.
La panca sta di fronte la porta del reparto che si apre e si chiude ininterrottamente per far passare la fiumana di medici. E' un fiume inarrestabile, instancabile, in corrente e controcorrente. Si apre, si chiude, si apre, si chiude. Il fiume.
Questo fiume ha occhi che si posano su di noi. Sembrano tutti rapiti per sindrome di Stendhal di fronte a una "Madonna con bambina". Nessuno passa oltre indifferente.
Credo che l'immagine trasporti i tirocinanti in avanti nel loro desiderio e, i medici fatti, indietro in quello che hanno vissuto. Capisco quanto possa essere fortemente evocativa.
C'è da dire che io e Sofia siamo l'una riproduzione dell'altra, bellissima lei, io di riflesso in questo specchio, per cui l'impatto è forte: un'unica persona con due età, che culla e viene cullata, che si abbandona a se stessa e protegge il suo abbandonarsi.
E io mi presto a questi loro occhi, perché fa bene, perché per qualche istante si liquefanno.
La verità però è che sono piuttosto smaliziata rispetto a questa Maternità, ci sono dentro in ogni istante; per me non è un impatto, è il mio stato. E non ho alcun interesse ad osservarlo, oggi.
Io guardo altro. Guardo loro.

Medici e tirocinanti, tantissimi, mischiati per età e attività, tutti in preda all'estasi della frenesia per il controllo sulla vita altrui, la cura.
Non è che in questo reparto ci sia l'adrenalina da intervento dell'ultimo istante al Pronto Soccorso: non esiste un codice rosso per emorragia di cerume.
Eppure c'è un formicolio vivo, l'eccitazione, quella che solo i medici che maneggiano la vita hanno, fatta di piedi che battono sul pavimento veloci, di mani smaniose a riposo nei camici, sotto ai camici gambe vestite di un qualcosa molto lontano dalla sterilità della divisa, perlopiù jeans e carne vibrante, che si scuote direbbe splendidamente Capossela in Morna.
Storie che non raccontano soltanto di analisi, cartelle, strumenti, diagnosi, ma dicono di incontri mancati, anelati, consumati, attesi.
S'incrociano per caso, fanno in modo di incrociarsi, lanciano in aria una parola, forse quella rimasta in sospeso. A volte si sfiorano.
Mi fido di tutti questi visi, di questi sorrisi, di questi corpi. Sono vivi, sono sani. Chiamano vita.
Tranne una: lei è tirocinante e fa la dottoressa. Non ride.

Ci stiamo guardando tutti, qui. Tutti la stessa cosa.
Loro, questa mia maternità statica; io, il loro desiderio in movimento.
La stessa origine.



Vostro Onore, la teste non è attendibile.
Io sono quella che nelle due anestesie avute, una a 16 anni e l'altra a 28 post-partum, ai due Professori di turno in un sospiro narcotizzato ha pronunciato: "Nome e Cognome, io l'aamo".
Divento fango molle di fronte al camice. Fango molle che arrossisce.

Eppure, quando torna:
"Riccio, se ci dovesse arrivare la crisi veniamo qui, per la cura ormonale"
Ride.

Allora non è affatto soltanto una mia impressione.

5.10.10

I bagordi dei trentenni

Dopo cena, Veronica e il Riccio discutono di Sarajevo assediata, dello sguardo dall'interno della gente vessata dalla guerra, dove comunque riesce miracolosamente a sopravvivere una sorta di rituale del quotidiano. Discutono delle fotografie che hanno fatto il giro del mondo, e il Riccio, che ha l'occhio lungimirante, le parla di tutte le guerre i cui scatti non escono neanche dall'obiettivo che li fotografa perché non sempre le signore ferocia&morte vengono ritenute degne di posa, passeggiando ancora indisturbate nelle terre del Turkmenistan e della Georgia; discutono della bellezza scenica dei caschi blu, in molti casi slegata dal ruolo a cui sarebbe preposta, e della colonizzazione subdola del mondo di certuni autoproclamatisi senza possibilità di replica ammiragli della pace; e poi ancora dell'ultimo colpo di stato in Ecuador, dal sapore squisitamente vintage dei villani del Medioevo.
Continuano a pigolare di certe cose, ognuno seduto d'avanti al proprio computer.
Soltanto a letto smettono, perché la bambina dorme, e la guardano e si guardano, la guardano e si guardano, così per una decina di minuti.

E prima di iniziare la lettura della sera, alle ore 3, Veronica e il Riccio si danno la buonanotte e si dicono che magari  da questo momento in poi rinunceranno al caffè delle 20.

Ed è forse per il mal di testa della mattina che Veronica non è ancora ben sicura a cosa voler rinunciare: se alle eccitanti conversazioni notturne col Riccio e connessi sintomi post-sbornia dell'insonnia o a indolori e pacifici risvegli da serate borghesi.

4.10.10

Il passeggio domenicale

Svago.
Distrazione.
Ho sempre trovato questi abbozzi di attività ridicoli, al limite dell'amebetizzazione, della bestialità.
Come se ci potessimo permettere di andare altrove, di perdere i nostri daffare e le nostre finalità nella mollezza dello svago indistinto e vago, del passeggio senza meta, con l'unico scopo di non avere scopi. 

Sono sempre stata un animale da sofà, da sedia, da moto immobile poggiato sui mobili perché il pensiero non ha bisogno di gambe fisiche.

Eppure da quando c'è Sofia, da quando l'ora d'aria è diventata indispensabile, sperimento sempre di più il fatto che ci sono cose che non si trovano al di qua delle trincee di casa, che magari offrono il sollievo del rito domestico escludendo però il balsamo della vita nuova venuta da fuori.
Fuori c'è l'aria di strada, il carnevale delle storie umane assortite. Non si conoscono, non ci appartengono, ma sono tutte messe qui a vista, esposte tra i passi di questa gente, i loro visi.
E basta così tanto poco per riempire gli occhi affamati di movimento.

Stasera siamo in tre, in questa città che ho abbandonato ma che mi perdona ogni volta accogliendo, come se la mia storia anonima mancasse qui, nel brulicare di centinaia di storie anonime.
Andiamo a raccogliere quello che a casa ci manca, e il solo cercarlo ci mette forza, ci ristora.
Ecco che si fa per strada, passeggiando, mi dico mentre lo faccio: si fa quello che rende l'uomo Uomo, si cerca. 

Status diversi, abiti, voci, nomi, aspirazioni diverse, migliaia di sfumature di colori accomunati dalla stessa mancanza congenita e dallo stesso bisogno di colmare.

Gli occhi febbrili di cura perlomeno ci rendono fratelli, per strada.






Incontro una Romania stanca che s'inchina mentre suona e mi commuove.