26.2.10

C'era una volta/L'inizio.

Mi chiedo dov'è che risiede questo forte impulso che sento, questa forza cieca che mi spinge da sempre e per sempre in direzione di mia figlia. E se è cieca come può disegnare meccanismi perfetti?
Al di fuori una donna mamma e una bambina.
Al di sotto un entroterra che non appartiene né a me, né a mia figlia.
E' la zona franca dove si innesta la trama misteriosa del legame, fatta di cose non esplicitate, di intuiti, di sensi, fatta del linguaggio più antico di questo mondo dove un gesto o un'espressione del volto o anche solo l'elettricità emanata dal corpo parla più del detto.

Ma l'entroterra che vado esplorando è ancora più fitto e profondo di questo.

E' mistero quello dell'incontro tra una madre ed una figlia ed il loro viversi. Va al di sotto dell'istinto. In un bacino di figure a cui noi diamo il nome di visioni dell'inconscio ( la visione viene nominata ma non il contenuto, che rimane inespresso perchè non conosciuto) e che sono evocazioni, esse stesse voci normative di tutti questi diversi strati dell'esistenza, bacino, entroterra e via via superficie, fino al di fuori.
Dove c'è una mamma, una bambina e la parola funambolica della favola, che sola può dire di tutte le loro visioni.

C'era una volta una donna, senza nome, senza tempo, senza luogo. E forse senza un volto. Li aveva accantonati un giorno dietro di sé, come fossero state orme per cui è normale non reclamare la loro scomparsa. Solo un'ingombrante involto portato dietro, su una schiena ricurva, mentre andava per il mondo assaggiando le sue dolcezze, i canti, i lamenti e le fattezze. Amava il mondo, ma né un odore, né un colore, nessuna vicenda o storia sentita poteva nutrirla. Era avvenuta una frattura, tra l'amare questo suo mondo ed il viverlo, da qualche parte del tempo che non le apparteneva e in un luogo che non conosceva.
Frattura che le sue mani non erano consapevoli di come poter risanare, impegnate senza posa ad infoltire l'involto, di cose del mondo, senza mai curarlo.
E proprio lei, vissuta sempre di rimandi, alla fine di ogni altrui evocazione, e mai di propri inizi definiti, cominciò, lenta e silenziosa, a cercar un appiglio iniziale, un punto, la pace di una definizione, perché il gesto della cura potesse funzionare, e sanare la frattura, e fermare l'inconsistente accumulare. 
E venne, sulla sua strada, una bambina. Aveva occhi antichi e non parlava.
Guardò la donna, la chiamò e le chiese di prendersi cura di lei. 
La donna prese la bambina, la mise nell'involto e cercò un campo di grano. 
Sulla strada, nell'involto, la bambina si nutrì delle cose della donna, e ne giocò, facendo scivolare a terra alcuni pezzi senza rumore, tenendone altri stretti dal piacere.
Arrivate al campo, in mezzo al grano la donna sciolse i nodi dell'involto e trovò la bimba ripulire della sua limpidezza le poche cose sopravvissute: un'idea, qualche ricordo, un progetto, un modo di fare, poche parole. Quelle cose si fecero gioco e nutrimento per entrambe.
Ed entrambe in un luogo fecero il tempo e nel nome di madre e figlia guardandosi l'un l'altra ebbero un volto.

La donna senza volto sono io. La bambina che me lo ha ridato è mia figlia, Sofia.
E questo è l'inizio.