30.12.10

...and happy new year

di non avere paura per ciò che non capiamo, che ci sfugge e non si lascia controllare 
perché ogni cosa prima o poi prende parola e si rivela, anche quella più nascosta 

di cadere, di sporcarci, di ferirci
e avere ancora voglia di cadere, di sporcarci, di ferirci
perché è nell'azione eroica che vive quello che ci rende felici

di smettere di cercare
cercare
cercare
cercare
cercare
cercare la nostra danza
ma danzarla una volta per tutte
perché tanto esiste anche senza che noi la conosciamo

di essere istante per istante presenti e avere cura di noi stessi, delle cose che ci appartengono, delle azioni che fanno di noi noi
senza vivere costantemente l'attesa, il silenzio infelice del presente incompiuto,
di quello che vorremmo essere, che vorremmo avere, che vorremmo fare
perché è oggi, quello che esiste fuori e dentro noi,  tutto ciò che abbiamo



e però di lasciare all'anima il diritto di ribellarsi e scampare alla legge di gravità, che ogni cosa preme sulla terra, e lasciarla volteggiare sospesa 
a ridersela anche delle cose della terra



E' questo l'augurio
per me
per mia figlia
per lui che mi sta accanto

e per tutti voi

non per l'anno,
ma per oggi,
per ogni nostro oggi

29.12.10

Benvenuti!: questo è il nuovo spettacolo al castello chicato

Sigla d'apertura Walt Disney.


enfatizzato 
sospirato andante ma non troppo

"Gguuaaaarda cosa c'èèè, Sofiiiiiia..."
"hhhuu!!!" (stupore)
"...il cashhstello incantaaaatoo..." (quello 'shh' da un non so che d'accentazione che ci piace tanto e 'incantaaaatoo' lo dico alla maniera di Woody quando dice "pozzoooo")
"...chicato! chicato!"
"Siiii...E cosa c'è nel cashhstello incantato ? "
"...ooooohh..." "ine! ine!"
"Siiii, giusto!, le stelliiiiiine e poi le...? "
"ine! ine!"
"...le farfalliiiiine che volano in alto in alto nel..." le mani in alto che disegnano spirali.
Spinge la testa indietro, guarda un punto indistinto perso nell'aria: "...ce'o"
"...brava!, nel cielo, e poi le ? "
"...uone ptchiù! ptchiù!"
"Siiii, le fatine buone che danno i bacini ai bimbi" 

Sofia non conosce affatto i concetti di "incantato" e di "fata" e ha ancora pochissima dimestichezza con quelli di "stelle", "cielo" e "buone", eppure per tutto il tempo della rappresentazione terrà gli occhi sgranati di meraviglia.



Incredibile per me tutte le volte: una bimba, la cui unica attività sarebbe quella di esperire le cose del mondo per confronto diretto con lo strumento dei sensi, che carpisce benissimo il senso del meraviglioso, l'incanto delle cose leggere, l'impalpabile disegno del favoloso.
E davvero con poco: la voce dondolante e sospirosa, mani aperte danzanti in aria e l'assenza di coordinate tangibili se non il mio corpo che narra.




p.s.: mentre scrivo, Sofia guarda l'immagine e urla chicato!! chicato!!

Walt Disney - DreamWorks Animation 1-0

27.12.10

"1°" Natale

Non me lo ricordo affatto il Natale dell'anno scorso.
Se già oggi soffro di grave deficit d'attenzione e tenere a mente due nozioni diverse, seppur connesse da funzione logica tipo latte + biscotti, mi risulta gravoso quanto per una foca studiare i sistemi integrali, figuriamoci com'ero messa un anno fa.

Quando ero nursery vivente e azienda produttrice di latte attiva 24 ore su 24: portavo Sofia in braccio tutto il giorno (leggi tutto il giorno), per una sorta di patto che avevo stretto con la mia paura di non essere abbastanza, e pareva che il latte che lei assumeva istante per istante venisse sistematicamente fagocitato da un buco nero, perso in uno spazio cosmico parallelo che a stare a sentire la legge della conservazione della massa certo qualcos'altro sarà andato ad alimentarlo; una specie di adozione coatta a distanza di nonsochiocosanonvogliosaperlo.

Oppure più semplicemente mi prendeva per il culo.

Se ne stava lì, quieta, ventosa appiccicata con attack, chiodi e cemento a presa rapida, ignara dei miei crampi, dei miei bisogni fisiologici impellenti, del baratro verso cui stava precipitando il mio sistema nervoso. 

Naturalmente, per la condizione paradossale che la genitorialità offre per cui mentre il senso del tuo personale mondo, così come te l'eri affannosamente costruito tassello per tassello, crolla sotto l'effetto domino per farti però allo stesso tempo contenitore più ampio del senso di tutto questo mondo, mi sembra superfluo sottolineare che la problematicità dell'anno scorso fosse condita da profonda, piena felicità.

Direi totalizzante, però.
Paralizzante.
Troppa.

Di quella felicità che stordisce, ti assale investendoti, si attacca sulla percezione del mondo reale ovattandola di melassa e togliendo il più piccolo barlume di raziocinio, si fa malattia dell'intelletto.
Ti rincoglionisce insomma.

Anche perché la simbiosi che si viene a creare tra due identità è per gioco forza reciproca, di mutuo rapporto.
Se Sofia si muoveva dentro una bolla, lo facevo anch'io.
Se non aveva il benché minimo sentore del tempo cadenzato, anch'io venivo risucchiata dal torpore denso del non-tempo.
Se per Sofia il rito millenario aveva la stessa rilevanza di un rutto, anche per me qualsiasi evento fuori dalla nostra bolla mi sembrava una storia lontana a cui io non appartenevo.
Mi sentivo dentro al sacro fuoco della maternità e fuori da ogni altro gioco.

Per cui no!: lo scorso Natale per me niente spazio per lustrini, lucine, palline, canzoncine, pucci pucci pa' pa' o atmosfere d'ispirazione.

Quest'anno, nonostante dalla banchina guardi ancora nostalgica i binari lineari della ragione aspettando di poterli ripercorrere, sembra che la nebbia dell'ottundimento attorno alle vette della testa stia cominciando a stemperarsi.
A poco a poco.
Lentissimamente.
A piccoli traguardi, come se stessi seguendo un corso di riabilitazione alle cose di ogni giorno.

Le cose di ogni giorno.
Come di questo nostro "1°" Natale.











20.12.10

L'amore ai tempi di Sofia

Al parco.

Gabriele.
Biondo, biondissimo, etereo putto olimpico incarnato nel  figlio di papà più griffato della Sicilia orientale; si può ipotizzare con pochissimo margine di errore che non porti il Rolex soltanto perché ancora pesa più di lui.
Sicuro di se, si muove tra gli oggetti ludici come fosse il condottiero che porterà tutti nella parte più alta del castello.
Ma a lui mica interessa raggiungere le vette del castello gonfiato: lui se ne sta più a terra possibile, godendo nel lanciare oggetti contundenti contro ogni bersaglio mobile, deambulante e respirante. Sotto la beata approvazione di Sua Maestà suo padre.
Sa cosa vuole, dove vuole andare, di chi si vuole circondare quando decide di concedersi alla massa belante. Lui comanda ma senza imporre, per diritto naturale, per naturale lignaggio, senza dover pretendere quel potere illimitato che tanto alla nascita gli è stato naturalmente concesso. 

Insomma lui è uno stronzo, ha 2 anni e Sofia ha una cotta per lui.
Lo tocca come fosse un gingillo di cristallo.
E lui le molla un ceffone.

Il papà lo guarda tronfio e se è possibile espandere ancora di più un corpo che alle ore 16 del pomeriggio è vestito come se stesse uscendo da una prima al Massimo, alto e largo 2x2 m, di fronte alla scena del suo amato delfino che aggredisce una bimba di un anno e mezzo per fastidio e soddisfazione, beh, lui lo fa.
E' l'unica cosa che fa.

Questa è la parte dove saprei benissimo come far arrivare Signore e Signorino velocemente sulla parte più alta del castello



Daniele.
E' il figlio di un posteggiatore. Ha vestiti, cappellino, sciarpetta e scarpe sbrindellati, al limite del logorio. Ha l'aria mesta, un po' troppo giù per essere l'aria di un bimbo. Segue diligentemente i dettami del papà, è educato: gioca ma con moderazione.

Improvvisamente Daniele si ferma, non gioca più, si appoggia sul muro e guarda le sue scarpe. La mamma gli chiede quale sia il problema, sorpresa da quello che evidentemente è un atteggiamento insolito.
Ha accanto Sofia: si è preso un'incontrollabile, trascinante, lampante cotta per lei.

Giocano a ridosso di una piccola scalinata, Daniele lo vede che sono l'ombra di Sofia, ma pare che io non basti alla sua incolumità: lui la sostiene, le tiene la mano, le dice di non correre. Quello di Sofia è un andare ancora incerto, non regala la sfrenatezza del gioco, come quello che lui potrebbe fare con gli altri bimbi.
Ma sembra che quello che gli interessa di più sia proteggere quella bimba rotonda vestita di bianco. E' evidente quanto per lui sia più trascinante di qualsiasi gioco forsennato.

Sofia?
Sofia gli toglie la mano infastidita, lo evita, cerca di partecipare al gioco degli altri, lo silura con inequivocabili "no!".



Agli albori del nostro primo istinto, secondo solo a quello di sopravvivenza, già dai primi abbozzi di afflato amoroso sono evidenti tutte le dinamiche che fanno di noi adulti servi asinini di pulsioni irrazionali legate all'esibizione delle penne più iridescenti.

Il fatto che dei bimbi poco più grandi di un ciuccio siano protagonisti di questi nostri stessi ridicoli caroselli, un po' ci scagiona?

16.12.10

Come sopravvivere ad un pomeriggio piovoso

E quando siamo rimaste sole, ci siamo guardate, abbiamo sorriso come a dirci 'finalmente', quasi fosse l'urgenza di due che da troppo tempo non condividono, ed è cominciato il nostro pomeriggio.

Sedute sul divano, io gambe accavallate a sorseggiare un caffè, lei gambe rilassate e distese mangiando un frutto, ci siamo incantate con le suggestioni delle atmosfere mistiche che in questi giorni passano le pubblicità televisive.
Ci siamo zittite di fronte all'isteria del telegiornale finché lei si è alzata di scatto perché vedessimo un dvd. E lì abbiamo sospirato assieme di fronte ad uno tra i più delicati dei corteggiamenti d'amore.
Abbiamo fatto come di rito l'entourage per tutta casa commentando le statue in mogano africane nella stanza da letto, il separé cinese in bagno, l'ennesima scatola di latta in cucina.
Ci siamo vezzeggiate con i soliti "ma quanto sei bella, sempre più bella" "quanto sono lunghi i tuoi capelli" "come ti sta bene questo vestitino".
Mentre pelavo le patate per cena, si parlava di come cucinarle; mentre cucinavo, lei mi aiutava raccogliendo roba da terra.
E poi ci siamo annoiate anche, certo. 
Con l'esclusiva, però, di poterci permettere un tale scomodo stato, scomodo specie se non è solitario ma lo si condivide, senza fraseggi del cervello, senza imbarazzi, senza colpi di coda o forzature. Accogliendo il momento come naturale estensione del nostro stare bene assieme e anticipazione di nuove attività. 
Che puntualmente sono arrivate: l'hobby in comune del disegno, le immagini di una rivista da commentare, per poi finire con l'eccitazione di tipo adolescenziale all'ascolto di melodie per noi trascinanti in modo irresistibile.

Saluti, baci, buonanotte.     

Sarebbe un pomeriggio comune, forse anche uno dei meno fantasiosi, se non fosse che adoriamo trascorrere del tempo assieme, soprattutto quando questo tempo è lento, piovoso-fuori caldo-dentro come una tazza di the, 
liquido come quasi solo quello natalizio sa essere. 


p.s.: qui quello che in questo periodo ci fa sospirare e qui qualcosa tra quello che ci gasa
:)

8.12.10

"Via, via, vieni via con me"

Veronica e il Riccio si sono conosciuti con una gentilezza.
Una sera in un locale, dove lui suonava ad una jam session, costretti da un corridoio stretto a incontrarsi, scontrarsi, fermarsi, lui le ha ceduto il passo, lei si è girata verso di lui e gli ha sorriso.
Nient'altro. Avanti lei, lui dietro, verso l'uscita del locale. 
Nient'altro, se non fosse che erano già inesorabilmente l'uno dell'altro. 
E che in mano portavano fuori dal locale la loro storia tutta da tessere.
E, una volta fuori, quella sera ce ne sono state altre di gentilezze. Come quando il Riccio ha chiesto a Veronica se avesse da accendere. E dopo un quarto d'ora che si parlavano fittamente, dalla tasca del Riccio sono venuti fuori tre accendini.
Ne hanno riso, e così ridendo si sono incamminati nella loro nuova vita senza punti di ritorno. 

Oggi hanno una casa, gli oggetti condivisi, asciugamani, lenzuola, piatti, bicchieri, tazzine, una vita da organizzare ex novo, una bambina e da qualche giorno, dopo un litigio, la loro prima crisi. 
E Veronica ne può parlare perché sa quanto siano fisiologiche le rotture, quanto siano focalizzanti e riequilibranti, come il riposo per il corpo, per due che hanno sperimentato soltanto la bolla saponosa del loro sentimento e mai il contrasto tutto da gestire. Veronica sa quanto valga che la bolla saponosa si riposi.
E soprattutto ne può parlare perché nonostante non si parlino da più di 5 giorni, non hanno dismesso le loro reciproche gentilezze, perché da questa pasta son nati e di questa pasta son fatti. 
La mattina il caffè lei per lui, il pomeriggio il caffè lui per lei. La preparazione dei pranzi e delle cene come sempre equamente distribuita e i soliti "com'è? ti piace?". 
E i vari sparsi "copriti, fa freddo"; 
"hai dimenticato il cellulare"; 
"lascia: è pesante, lo prendo io"; 
"ti accompagno". 
E ovviamente tutto quello che gira attorno alla loro bambina: risate, resoconti, teorie, sorprese. 
Per il resto (e ne rimane tanto di resto nella loro giornata) vige un assoluto silenzio, di quelli che fanno rumore tanto sono invadenti. 

Veronica ha però notato che quando sono fuori parlano. Camminano vicini, decidono assieme, si chiedono, si consigliano, insomma condividono. 
Forse perché nonostante tutto sono una famiglia e lì dove fuori piove un mondo freddo c'è bisogno di punti di riferimento, di appoggi delle coordinate, di portare il conosciuto nello sconosciuto, di portare casa dove casa non c'è. 
E lei guarda il Riccio, lo vede spingere gli occhi lontano, poco più sereni, così diversi da quelli che in questi giorni posa sulle loro cose, sulla loro casa. 

Allora in cuor suo Veronica pensa che quest'anno sotto l'albero metterà una bella e confortevole tenda a tre posti per portare lei, il Riccio e la loro bambina, a vivere magari in strada, al parco, al negozio di merceria o al supermercato e riprendere la loro mirabolante, saponosa avventura tra scaffali, carrelli, banconi del pesce e offerte del giorno.


Paolo Conte - Via con me

4.12.10

Le prime volte: quello che ci cambia


Dovrei prendere un po' più sul serio l'argomento secondo cui ogni gesto nuovo, ogni nuova azione, ogni nuova forma del parlato, insomma ogni nuova esperienza ci cambia. 
Succede come quando ti compri qualcosa di nuovo e anche se è uno straccetto maleodorante preso ad un qualunque mercatino anonimo ti senti Kate Moss testimonial per Longchamp. E giri così, recitando con naturalezza questa discrepanza tra lo status lontanamente vagheggiato di lady eterea incarnazione del femminino e quello della nuda e cruda verità di una specie di Roseanne Barr in She-Devil, mentre lavi i piatti o prendi l'autobus o fai la fila alla cassa del supermercato, insomma mentre fai quello che fanno i comuni mortali nelle loro comuni vite con le loro faccende comuni e ti senti quello che non sei stata e non sarai mai. 
Basta un cencio, che sia nuovo s'intende, ed è fatta: miss figa dell'anno. 
Succede così anche quando fai la piega, non tramite mani tue ma quelle maniaco-ossessivo-compulsive di Edoardo mani di forbice parrucchiere sotto casa tua: finalmente lontano dal comportamento borderline manifestato per lunghi mesi uno dietro l'altro per mancanza d'apposite cure, il capello organizzato ti fa un po' diva hollywoodiana che uscita fresca fresca se ne va con quello stupido motto appiccicato in viso tipo "perché io valgo".

Ecco, questo succede perché il nuovo venuto nelle nostre vite segna una sorta di epifania dell'essere. 
Da un punto di vista cognitivo, ogni nuova esperienza attiva aree del cervello poco o mai usate, per cui ad ogni new entry si instaura un nuovo assetto tra le competenze cerebrali. 
Da un punto di vista psicologico, il nuovo ci apre scenari percettivi mai provati, apre strade non battute, ci costringe a formulare nuove strategie. 
Il nuovo ci fa nuovi. 
Qualsiasi cosa, non per forza un amante o il bungee jumping: basterebbe persino partire dal basso. 
Dalla scelta di un colore generalmente da noi mai usato a una nuova bevanda sorseggiata; da un ballo di gruppo da sempre evitato, per semplice sano e umano senso del pudore, a un vocabolo sconosciuto (ad esempio se questa è la prima volta in cui vi imbattete come me, che per l'occasione ho aperto a caso il vocabolario, a caso eh?, nell'aggettivo paretiano dell'economista e sociologo Pareto - nell'economia del benessere, situazione in cui non è possibile migliorare le condizioni di un individuo senza peggiorare quelle di qualcun altro - adesso per il solo fatto di averlo appreso siamo tutti poco più nuovi)

Per cui considerando il fatto che Sofia è la prima bambina della mia vita, non solo nel senso particolare di figlia, ma in generale, di una bambina che tengo in braccio, a cui cambio il pannolino, che vesto, a cui preparo da mangiare, che accudisco insomma, (ché con i figli dei miei cugini al momento della loro nascita ero già troppo lontana dal mondo della maternità spontanea e biologica nei confronti delle bambole e ancora troppo lontana da quella matura nei confronti dei bambini in carne ed ossa, cioè ero la tipica ragazzina affetta da quella malattia psicologica debilitante, seppur necessaria e fisiologica, l'adolescenza, che ti toglie qualsiasi appartenenza tenendoti lontana dalle cose del mondo) allora, dicevo, da quando c'è Sofia dovrei essere una persona completamente nuova. 
Uso il condizionale perché magari potrei anche essere davvero una persona del tutto nuova, ma poiché nessun cambiamento significativo è arrivato alla mia coscienza, io mi sento la solita vecchia asina che aspetta una qualificazione a classi più nobili. 

Certo è che per la prima volta in assoluto ho preso la forbice e ho realizzato il primo taglio di capelli della mia vita. 
Qualcosa nella mia testa sarà pur avvenuta ma proprio mi sfugge perché al massimo mi sento una che per rinnovarsi s'è fatto il ritocchino e tra qualche giorno tornerà al punto di partenza.

Sofia però nuova lo è di sicuro. Senza punti di ritorno. 






30.11.10

Oggi si echeggia

E dopo lo spazio angusto di certe paure
che in questi ultimi giorni hanno come stritolato il mio agire,
oggi mi muovo respirando l'ampiezza.

Da sempre trovo che gli spazi di casa ristretti, da mura o da disordine o da magra organizzazione degli incastri tra oggetti e strutture, creino uno squilibrio nella percezione. Le immagini si collocano nella parte che ci controlla a prescindere dalla nostra autorizzazione, l'inconscio, e creano delle frasi. Ingarbugliate se sono confuse accozzaglie, fluenti e musicali se le immagini sono pittoreschi equilibri di forme. Ecco, le forme ci entrano, si impressionano sui nostri contenuti interni e si fanno a loro volta contenuto. 
Forma e contenuto che si radicano l'una dentro l'altro è una di quelle alchimie misteriose verso cui sono attratta per l'incapacità, accolta come solo lo si fa con l'incomprensibilità delle cose che ci incantano, di non sapermela spiegare. 

Ho fatto spazio qui a casa, ieri sera, tentando di dare aria a queste nostre cose, adulte e di bambina, che proprio non riescono ad amalgamarsi, a trovare dei compromessi perché le une non soffochino le altre. Ma uno scrittoio in arte povera ha poco da scendere a compromessi con una casetta Chicco in plastica dalla chiassosa estensione di un metro quadrato. 
E se l'accordo di stili non è stato ancora raggiunto, per lo meno spostando, cambiando l'ordine, angolando e intersecando, abbiamo miracolosamente acquistato dei centimetri vitali. 

Spazio vitale. 
Appunto. 
Non secondario, complementare, trascurabile o accessorio.
Vitale. 

E così mi dico che forse queste nuove forme stanotte si sono trovate un posto nella mia coscienza e con lei hanno discorso di qualcosa che mi sfugge se stamattina ho preso il sax e l'ho suonato.
Qualche nota, appena un flebile accenno di melodia, qualche vaga traccia del mio stile, ma inequivocabilmente il mio swing. Che è come la mia camminata, il modo in cui guardo al mondo e gli vado incontro, probabilmente un po' acciaccata dai pesi di testa di questo periodo, un po' stridula per corde troppo tese, ma comunque io, libera nella mia espressione. 

E mi sento sciocca a raccontare di come una stupidaggine, una frivolezza, seppur un rinnovo degli spazi vitali, possa cambiare la percezione delle cose.
Ma oggi suono il mio swing, che fa così....


26.11.10

21.11.10

Cucitura e stiratura

Mentre stiro gli abitini di Sofia succede che, dopo un lavoro certosino e di enorme dispiegamento di energie da parte del sistema nervoso, tolga una prima piega e che, tolta la piega, tutte le volte fiduciosa oltre ogni limite di ingenuità che il lavoro [ecc. ecc] nervoso sia passato dall'altra parte del vestitino e che dunque sia definitivamente finito, succede che giri e ACCH!: tre pieghe ben bene formate dalla precedente pressatura del ferro. Allora mi metto di lena, tolgo le tre pieghe, giro e PORCH!: altre due pieghe, al posto della piega di partenza. E va così, di piega in piega, finché, colpita improvvisamente da una forma acuta ma di breve durata e spontaneamente reversibile di cecità senile, non mi decido a lasciar stare.

Ieri pomeriggio, stirando i vestitini di Sofia, mi sono resa conto che il problema non è mica nella stiratura ma molto prima: è nella cucitura del tessuto. 

Ieri pomeriggio, stirando i vestitini di Sofia, mi sono resa conto che in questo periodo la mia vita è così: un tessuto cucito in modo talmente complicato, arzigogolato, da non so quale geniale sarto, quasi certamente io stessa, da far sì che la stiratura sia una complicazione e non una soluzione. Più mi accanisco sulla stiratura mettendo forza, energia, attenzione, più la complessa cucitura mi si rivela in tutta la sua impossibilità ad essere spianata.
Mi chiedo come si fa?
Come si fa a tenere tutti i pezzi assieme? A far quadrare i conti?
Come si fa a tenere in costante equilibrio geometrico così tante facce di questo prisma che è la mia vita?
Eccole le facce.


La casa

  1. tenere in ordine, che poi significa lottare contro mulini al vento. Il disordine sembra avere una sua propria personalità, una sua vita biologica ed intelligente, sembra che segua scrupolosamente dei disegni misteriosi e soprattutto che vinca sempre
  2. pulire, scopare, lavare, spolverare, igienizzare, smistare ciclicamente nel frigo corpi amorfi da cibi ancora miracolosamente sopravvissuti alla bomba batteriologica, cambiare le lenzuola prima che i nostri corpi facciano da segna-posto umani 
  3. appendere il bucato, ritirarlo e stirarlo senza che sia vittima di abbandono in buste dentro l'armadio
  4. cucinare
  5. fare la spesa
  6. smaltire la burocrazia legata alla macchina quotidiana


Gestione personale 

  1. preparare almeno due materie per Gennaio
  2. tenersi ad un livello che almeno sfiori quello di decenza che non prevede affatto capelli isterici, unghia stile lupo mannaro, look genere "piccola fiammiferaia" con i primi cenci che trovo e pantofole logore
  3. tenersi sveglie, informate, presenti, attive, reattive, ma non iperattive, forti ma gentili, lucide ma tenere, tenendo in equilibrio tutte le sfumature tra forza mascolina e fragilità da vergine sacrificale 
  4. aggiornare il blog 
  5. fare in modo che l'uomo animale sociale, con le trame intricate delle sue relazioni che lo formano e lo sostengono e lo stimolano, non sia una barzelletta su Berlusconi (o non solamente)
  6. combattere, con tutta la forza e lo sforzo titanico che è in me, contro l'azione d'amebetizzazione che l'universo sta svolgendo su di me 

Sofia
Ehhh....Sofia. Fare tutto per Sofia. Tutti i punti delle liste lì sopra. E tutto quello che non mi viene in mente.
E poi

  1. lavarla, cambiarla, vestirla, farle il bagnetto, farla mangiare, lasciarle la sua indipendenza e farla mangiare da sola, farla mangiare da sola e lasciarla sporcare, lasciarla sporcare e ricambiarle i vestiti appena messi, cambiarle di nuovo il pannolino
  2. prepararle colazione, spuntino, pranzo, merenda, cena, stando attenta alla variabilità, alla genuinità, alla bontà
  3. consolarla, incitarla, stimolarla, portarla fuori, divertirla, istruirla, tutto il giorno
  4. farla giocare tutto il giorno
  5. farle fare i pisolini e cantarle la ninna nanna
  6. fare avanti e indietro tutta la notte, lettone-lettino lettone-lettino lettone-lettino

Mannaggia a quando un giorno gli umanisti del 500 scelsero di ribellarsi all'autorità dell'apparato religioso medievale (che di certo soffocava ogni iniziativa individuale sotto tutta quella serie di norme a cui dover rispondere ma al contempo sollevava da ogni forma di responsabilità personale) e, facendo dell'uomo in balia della Provvidenza un artefice del proprio destino, ci regalarono quest'uomo faber responsabile di tutte le scelte e le azioni e le conseguenze della propria vita, un deus ex machina dentro questo mondo e la sua esistenza.

E sarebbe facile dire che non posso far tutto, esser tutto, tenere in piedi tutto. Sarebbe facile dire che dovrei delegare o scegliere una cosa per un'altra.
Non è così. Non più.
Sono una donna faber. Devo fare tutto. Tutto il puzzle.
Stirare tutte le pieghe finché il tessuto non sia tutto spianato. O scucirlo di tutti gli orpelli che lo sformano e ricucirlo.

Come?

Lasciate una speranza, voi ch'entrate
perché io credo di averla definitivamente esaurita.

18.11.10

Quella felicità di passaggio

Siamo nello spazio di casa destinato al "mistaggio", quello che non usiamo se non come passaggio da una stanza all'altra. E' lo spazio vuoto, qualche pezzo messo con poca convinzione, di passaggio anche questo se sta qui. 
Il Riccio è seduto a terra in una posa per lui insolita e gonfia palloncini. Sofia gli sta di fronte aspettando tutta tesa. Quando il palloncino è al massimo della pressione Sofia glielo toglie e il palloncino comincia a sbeffeggiare sui capelli del Riccio e di Sofia. Muoio dalle risate a guardare questi sbuffi sonori, questi sberleffi sulle loro facce divertite. Non mi trattengo. Ho gli occhi serrati dalle risate, non vedo più niente, e mentre sento Sofia chiamarmi un po' allarmata da questo mio moto sfrenato e il Riccio tentare di gonfiare un altro palloncino inutilmente ormai contagiato com'è dalle risate, penso che è da tanto che non rido così, che non ridiamo così, che mi sta facendo bene, che ci sta facendo bene. Sofia salta, urla, ha lo sguardo acceso, vibrante, corre a prendere il flauto e me lo da, io prendo un palloncino gonfiato dal Riccio e lo faccio soffiare sul flauto che suona come il fischio di un treno. 
La stanza è una bolla dentro tutto il resto adesso, colorata e rumorosa. E' questo scricciolo che l'ha gonfiata per noi. L'ha riempita.
E dura un attimo, l'apice di un'onda prima della sua caduta. Dura quel tanto che c'è di forza contro la gravità che spinge in basso. 
E' la signora che ci abita silenziosa e che d'improvviso dice qualcosa, e poi ritorna muta; quella felicità autentica che ci investe completamente senza lasciare spazi, e poi ha da andare via.   
Quella che più di tutto è di passaggio. 

15.11.10

OBSESSION N°1



...e la tavoletta grafica che il Riccio mi ha regalato per i miei 30 anni. :) 

9.11.10

Le mie scarpette rosse

Accomodatevi, prego. 
Prendetevi del tempo, se potete. Perché è di tempo che qui si parla, ché me lo sono preso tutto per raccogliere i pensieri, come quando si tiene qualcosa in bocca non per divorare ma per assaporare il gusto, tenerlo finché non si scioglie nell'acidità degli umori corrosivi. Eliminate, se potete, gli umori corrosivi del tempo veloce-velocissimo e
gustate questa bevanda, che ho preparato con la stessa lunga metodica cinese gestualità.

Così tanto tempo lontana dalle scene in kbyte perché a un qualche balordo fancazzista è saltato in mente, se di mente si può parlare, di sabotare la centralina che dispensa connessioni all'intero quartiere dove vivo. Un Big Bang rionale delle telecomunicazioni.
E per quanto mi riguarda, una grande occasione.
Vi parlo di questa mia esperienza di durata bisettimanale nel buio medievale fuori dall'era internettiana perché ho avuto tanto tempo - tempo che, in caso contrario, in mancanza di questa esperienza dico, non avrei mai avuto o preso - per razionalizzarla e sviscerarla. Prima viverla ciecamente, come si fa con tutti i fatti contingenti che si vivono come inghiottiti dentro l'occhio di un ciclone, poi guardarla da lontano con l'occhio razionale ripulito dai venti vorticosi e detriti incontrollabili, infine poterla raccontare.


(Se di tempo ne avete poco, passate a "Scarpette Rosse" che più s'addice al mordiefuggi tipico di un blog categoria "personale" 
Se proprio non ne avete, saltate direttamente a "Conclusioni") 


Labirintinternet 
Quando la sera del 27 Ott. la connessione è saltata si è subito percepita la mole della questione.
Connessione in tilt. In tilt la mia testa.
Ho accelerato immediatamente l'attività, già di per sé spasmodica in tempi non sospetti, del nostro caro nevrotico dito indice.
Click-click-click-click-click-click-click-click-click-click (numero indefinito di click). Niente.
Click-click-click-click-click-click-click-click-click-click (n. i. di c). Niente.
Click e niente per un'ora.
Descrivo questa mia apparente insulsa reazione perché è stata questa a mettermi subito in stato di allerta. Dal dito indice molesto in poi ho infatti cominciato a mettere sotto lo screening dell'auto-osservazione ogni mia mossa di fronte a questa situazione.
All'indomani del Big Bang, dopo una lunga-fredda-nera-notte fatta di contorsioni di occhi e di testa a metà tra rabbia psicotica e possessione demoniaca, di pruriti inestinguibili e sogni allucinati, dalle tane puritane siamo usciti tutti noi ratti superstiti abitanti del complesso danneggiato. Al posto di frasi e sorrisi di rito cortese, un disagio che non abbiamo potuto mascherare con nessuna delle frasi di repertorio tipo "Come sta?" "Bene. E lei?" "Bene".
Labirintite acuta manifesta tra un lampione e un vaso di piante grasse, occhi vacui e arrossati, sguardo scoordinato lanciato nell'etere privo di punti di riferimento e un generale unico rantolo: "Sto impazzendo" "E adesso che faccio?". E giù tutti con sorrisi sgangherati di comprensione, empatia o compassione buddista.
Diagnosi: crisi d'astinenza per dipendenza da internet.
Allora ho dovuto per forza cominciare ad analizzarla, questa dipendenza.
Prima di tutto perché una così facile ostentazione di questa nostra debolezza?
In genere sono i mattoncini dell'ego incollati con la saliva che tentiamo di mostrare, le nostre code di pavone, i colori più iridescenti - come se il nostro comunicarci fosse sempre e solo una pantomima del corteggiamento, una danza per l'accoppiamento tra predatori e prede.
In questo caso però ostentare dipendenza da internet ci ha reso, o mantenuto, in qualche modo forti. Perché ammettere, con tanto di sorriso scaltro dovuto al  benessere che ti offre il senso d'appartenenza ad un gruppo affollatissimo, legittimato dal diritto proveniente unicamente dalla consuetudine, di passare davanti ad uno schermo tutta la serata, o anche molto di più, per non incontrare il/la tua compagna, i tuoi figli, la tua gente, i tuoi doveri, le cose rimaste in sospeso, la lampadina da cambiare, il libro sul comodino? Perché non abbiamo alcun riserbo ad esprimere la nostra totale mancanza di incanto per la vita presente in carne ed ossa?
Perché internet è una carrozza dorata, una montatura di paillettes e lustrini che facilmente incanta.
E' la Babele per eccellenza. Una Babele multimediale.
Anche la vita naturale sarebbe straordinariamente multimediale (con in più una indefinibile magia fatta di odori, di luci, di ombre, di suoni, che spesso comodamente definiamo con la parola "chimica"). Ma che ci vogliamo fare: c'è di mezzo sto corpo, così pesante, così stanco, così scomodo. E la vita naturale si vive attraverso il corpo.
Internet, con quel suo po' po' di contenuto da vivere con occhi, dito indice e culo seduto è molto più comodo. Hai tutto con il minimo sforzo.
Dunque è Babele multimediale, assoluta e soprattutto efficiente. Per questo ci diciamo facilmente suoi adepti. Chi potrebbe biasimare una dipendenza dall'efficienza?


Sinapsi e connessioni
Internet è un treno, è sinonimo di velocità, ma si espande lento come una macchia d'olio nelle nostre ore: fagocita il nostro tempo.
Per cui è strano il tempo nell'era delle connessioni in secondi: l'attività internettiana, secondo l'apparato che la supporta, dovrebbe svolgersi in tempi brevissimi, eppure si dilata in modo abnorme e assorbe il tempo naturale, come avviene nel cervello. 
L'attività cerebrale consta di migliaia di connessioni al secondo. Dici 'secondo' e già sono avvenuti migliaia di processi: è una quantità enorme in un tempo ridottissimo che non possiamo razionalizzare, misure che si muovono dentro di noi nella nostra più totale ignoranza.
Un'ignoranza buona questa, molto saggia, perché pur partecipando della complessità del reale noi non possiamo contenerla consapevolmente tutta.
Non riusciremmo a partecipare di tutti i costrutti della mente senza uscirne schiacciati.
Nel mondo conscio, quello in cui ci strutturiamo consapevolmente, le cose vanno molto più semplicemente. Viviamo sui binari della vita naturale, che seppur complessa segue una ripetitività che la fa sostenibile.
Le stagioni, i cicli, i giorni, il tempo, creazione/distruzione, nascita/conservazione/morte, ci offrono la possibilità di partecipare della complessità della vita.
Quella del cervello è una complessità non gestibile da noi.
Per cui nella realtà che percepiamo quelle misure spazio/tempo si ammutoliscono per lasciar spazio al buon caro vecchio tempo naturale: c'è un tempo per girare il cucchiaino nella tazzina e far sciogliere lo zucchero nel caffè, un'altro per stendere al sole la biancheria, un altro ancora per togliere le rimanenze di una tavola imbandita a fine pasto. Tempi lontanissimi dalla velocità della luce dei processi cerebrali perché il corpo è quello che è, vive il tempo naturale. 
I due tempi, cerebrale e naturale, non vanno mai in conflitto, sono anzi in qualche punto, ancora misterioso alla nostra conoscenza, interconnessi, cioè: l'abnorme lavoro compiuto dal cervello viene come filtrato da un imbuto, rimpicciolito progressivamente fino ad uscire da un forellino molto più piccolo della sua grandezza di partenza. Questo forellino è la vita che noi esperiamo attraverso il tempo naturale, semplice, uniforme, a misura d'uomo.
Nonostante non si sappia cosa sia esattamente questo imbuto, credo però che si possa dire che uno dei tanti anelli che tiene uniti i due tempi senza che vadano in conflitto sia l'ignoranza, la nostra assoluta inconsapevolezza nel nostro caro lento tempo naturale della velocità allucinata del tempo cerebrale.
Stop. 
Ora questo discorso potrebbe continuare con un facile parallelismo tra connessioni cerebrali e connessioni internettiane.
Potrei facilmente dire che la cosa che ci tiene incollati a questo mostro informe dal nome vagamente ed evocativamente cancerogeno come l'eternit è il fatto che sperimentiamo la velocità delle connessioni senza il filtro dell'ignoranza e che questo ci fa sentire al di sopra dei nostri limiti congeniti e naturali, dandoci l'ingannevole ma confortante illusione di poter guadagnare in un sol colpo di click quello che non possiamo abbracciare se non con infarinature superficiali.
E potrei dire molto altro. Sbagliando.
La verità è che parlare di dipendenza da internet significa generalizzare ciò che è molto più particolare e sfaccettato: è un modo parziale di parlare di dipendenze del genere umano.
Inutile demonizzare un qualcosa che è semplicemente strumento al pari di un televisore, di un cellulare, di una chitarra, di una lettura, forse il più sofisticato tra gli strumenti perché è un pentolone di tutte queste cose messe assieme, ma non di più. 


Scarpette rosse
E che cos'è la dipendenza se non un modo smodato, psicotico, nevrotico, malato, di sopperire ad una necessità?
Il fancazzista di cui sopra mi ha dato la possibilità di rendermi conto della mia necessità/dipendenza. Che non si trova affatto legata ad internet: è molto più in fondo.
E' in questa passione che è il mio blog. Ma non è neanche legata a questo blog: è più in fondo.
E' nella mia adesione allo scrivere. Ma alla fine non è neanche tanto legata allo scrivere: è più in fondo.
E' qui, guarda, in basso: è nella mia pancia.
Dove indosso le mie scarpette rosse. Sì!, scarpette rosse.
Alzi la mano chi non ha mai fantasticato sul fregiarsi di scarpette rosse, chi non le ha mai indossate o chi, per totale mancanza di intraprendenza contro i costumi sobri-perbene, non le ha mai fatte indossare ai propri figli.
Il fatto è che le scarpe in generale sono l'involucro di ciò che ci fa aderire di più alla concretezza della vita, la quale si nutre di sangue, di viscere, di sacrificio, di passione: di forza rossa. Le scarpe rosse perciò sono un archetipo: rappresentano l'anelito a che la nostra vita sia salda, vitale e creativa.
Ognuno di noi, dentro ai nostri moti psicologici, possiede e cerca di calzare in ogni modo delle scarpette rosse. Ed è un bene che sia così, è necessario per sentirsi vivi. Ma quando questa necessarietà diventa l'unica, quando le scarpette non ti fanno danzare più la tua danza, il tuo personalissimo swing, perché per la troppa importanza che hai loro concesso cominciano a condurti freneticamente come indemoniate su percorsi che non ti nutrono ma ti sfibrano, questo direi che comincia a farsi problema.
La frenesia, la danza sfrenata, arriva quando la fame delle cose che ci nutrono è stata così protratta nel tempo da voler ad un certo punto fare incetta di ciò che ci sembra poterci saziare l'anima, quando ci si presenta davanti.
Un giorno, affamata com'ero, ho indossato le mie scarpette e ho aperto questo blog. 
Avevo bisogno di un luogo e di un tempo tutti miei che fossero di concentrazione, di ricerca e di confronto attraverso lo strumento che più mi accorda e mi si accorda. Il blog si è rivelato da subito un grande stimolo per la mia creatività. 
Mi ha salvato dal mio essere mamma a tempo pieno di uno scricciolo fagocitante oltre ogni limite la mia persona. Quando le mie scarpette danzavano io mi sentivo libera.
Però ad un certo punto, forse per questo loro rappresentare la mia salvezza e redenzione, hanno cominciato a prendere il sopravvento e rubare il tempo a tutto il resto, anche se solo con la testa. Facevo e mi muovevo comunque, ma se la testa è altrove ogni azione si spoglia di efficacia.
Così tutto a rotoli, tutto, che riassumo con "organizzazione del tempo". Disastro a casa, caos ovunque, disordine, ritmi frenetici inutilmente. 
Energie perse e tutto storto. 
Il tutto condito con tanto nervosismo da parte mia, e dunque del Riccio e di Sofia. 

E venne il fancazzista a togliermi quello che non avevo la forza di togliere. 

Cosa è successo in queste due settimane? 
Ho vissuto la calma e la pace del tempo naturale senza cercare luoghi altrove
La casa è pulita e ordinata in modo commovente. Ho iniziato la materia. Ho imbastito lo zaino per i giochi di Sofia e Sofia è in pace perché sente che non ho bisogno di andare. Faccio le bolle e gonfio palloncini non per acquietarla ma per stare con lei. E mentre sta seduta sulla sua sediolina a vedere per l'ennesima-ennesima-ennesima volta Toy Story e io lavo i piatti e sembra che si stia vivendo dentro una schiuma, penso che dopo tutto il casino vissuto questa scena da Mulino Bianco sia tutt'altro che da prendere per il culo. 


Conclusioni 
  1. Se aderire a se stessi e cercare di essere liberi diventa un unico moto che impedisce altro, allora è solo un inganno che ci ammala.
  2. Ieri è tornata la connessione Alleluia-Alleluia e sono felice di essere qui e di ritrovarvi
  3. Un saluto speciale al fancazzista


p.s.: c'ho ragione o no?: tanto tempo senza scrivere e mo' vedi che fame!

26.10.10

Ladies and Gentlemen: il tam-tam

tam-tam
fa nel fondo della mia pancia un tamburo improvviso, improvviso come il tuo decidere di lanciarti
tam-tam tam-tam tam-tam
un battere che nasce dal senso di meraviglia negli occhi fino ad arrivare alla pelle, ma poi torna indietro perché alcune immagini stanno nelle viscere per non uscirne più
tam-tam tam-tam
che si accorda al silenzio che stiamo facendo spontaneo perché niente, neanche l'aria che ti sta attorno, Sofia, ci sembra non dover essere spostata, ché anche l'uomo più meschino ha la decenza di ammutolirsi di fronte allo stupore per il sacro; e qui ora ce n'è, di stupore e di sacro
tam-tam
fa il senso di vertigine che adesso abbiamo addosso anche se è tutta tua questa vertigine, mentre cerchi l'equilibrio
tam-tam
è la voce della strada che si è appena aperta davanti a te e davanti a noi
fatta di nuove tue scelte, di nuove direzioni, ma anche di nuovi limiti
perché le catene si annodano dove si aprono le possibilità insieme ai voli
tam-tam fanno le catene, tam-tam i voli
e la grazia di questo tuo momento, anche questa fa tam-tam, quella delle cose nuove che regalano respiro, ci tolgono da dosso il peso dell'impotenza nel non poter più cambiare l'ormai
e oggi ci fa tutti nuovi, questo tam-tam ci chiama tutti ad esser nuovi come bambini, come te
e a cambiare pure direzioni
tam-tam 
fa questa nuova storia mentre si tesse dei tuoi passi, perché quando il corpo si muove disegna il luogo e il tempo della narrazione

e mi batte ancora il tamburo nello stomaco
tam-tam tam-tam
a pensarti finalmente libera
perché un corpo libero dà corpo alle scelte

i muri, le pozzanghere, la bicicletta, la sabbia, le strade larghe, le corse immotivate, i balli, i salti, le pietre, le scale, l'erba, le cadute,

tam-tam è l'emozione nella mia pancia per tutto quello che faremo
per ogni tua sinistra e per ogni tua destra
sinistra, destra, sinistra, destra, sinistra, destra,
tam-tam tam-tam tam-tam tam-tam tam-tam

simmetria e ritmo
i tam-tam di questo mondo


Si ringrazia la Riccio Entertainment per la gentile collaborazione

22.10.10

Prego, si stenda pure sul forno

"Riccio, sei un incapace, triste omuncolo senza spina dorsale, io ti disprezzo"; la voce arrancante e rotta come se avessi spine in gola. 
Il Riccio sorride. 
La reazione mi spiazza e adesso urlo: "Allora sai cosa fai? Prendi le tue cose, fai le valigie e torni al tuo paese"
Il Riccio scuote le spalle e sorride ancora, sprezzante, beffardo e liberato. 

Capita che per convincere Sofia ad addormentarsi (lo so: è una dichiarazione non priva di implicazioni meschine comportamentali) io debba fingere di dormire. Una pietosa finzione, un teatrino di bassa lega, purché Sofia mi lasci riprendere fiato almeno una mezz'ora.
Capita che impianti il teatrino oppressa da una prima mattinata piuttosto sfibrante e che di conseguenza la finzione diventi realtà: mi addormento davvero.
Capita che oggi il mio inconscio abbia punito i miei mezzucci da quattro soldi con questo sogno genere caso clinico Freud.
Al risveglio le spine ce le ho in testa.
Come fare a liberarmene velocemente, senza ricorrere a metaforiche pinzette tipo analgesici o colloqui psicoanalitici?

Comincio a pestare, affondare colpi sempre più precisi e metodici con una pietra, raccogliere i pezzi, triturare, inforcare, sbattere, dosare i colpi, premere, voltare e rivoltare. Infine ripulire.
E mentre la catarsi della mente arriva, ho sempre più la netta certezza che le frustrazioni si zittiscono quando entra in gioco il vigore del corpo. 

Ed è così che, durante questa soddisfacente e fruttuosa seduta terapeutica autogestita, nasce 

Amande: la nana dark (e sbrisolona)  







































125 g di mandorle finemente tritate
70 g di cacao amaro 
120 g di zucchero
3 uova (tuorli e albumi montati a neve)
100 g di burro ammorbidito 
1 bustina di lievito per dolci 
vanillina 

Le dosi sono il frutto di una mia libera interpretazione di due ricette differenti (torta alle mandorle+torta al cioccolato) assemblate. Sarebbe dovuta lievitare, vista la presenza del lievito. Così non è stato.
Poi si sa: la creatività prende strade che non possono essere controllate, si insinua in straducole che non abbiamo chiesto di percorrere, ma spesso premia.
La nana è profumatissima, dolce e vagamente amarostica, croccante&morbidissima, sbriciolona in modo imbarazzante.
La tazza qui sopra è piena di latte, compagno di vita della nana. La nostra cena. 

Squi-si-ta.
Parola di Sofia. 















La sua prima torta.

18.10.10

Non lo so

C'è un uomo seduto sul pancone di cemento che costeggia da un fianco il parco e dall'altro il corridoio che io e Sofia stiamo percorrendo in lungo e in largo.
Sarà un quarantenne e un poeta, mi dico, si vede da subito, da come porta il corpo e lo sguardo.
Gli passiamo accanto e Sofia gli va incontro, perché lui è un papà e ha due bambine, immagino una duenne (ormai ho imparato: i duenni sono alti come Sofia, possiedono il suo stesso vocabolario ma loro camminano) e una cinque-seienne (lo si vede da come siede senza moti scomposti accanto al papà).
Quando gli siamo di fronte, l'uomo allarga occhi, bocca e voce e guardandoci chiede a Sofia:
"E tu da quale pianeta provieni?"
Sono talmente assuefatta a rispondere alle tipiche domande che comunemente si porgono a una bambina, che a questa sono del tutto impreparata. Anche io allargo occhi e bocca, ma sorrido silenziosa.
Sofia ha già perso interesse e mi libera da un certo imbarazzante senso di spiazzamento.
Ci allontaniamo. 
Di nuovo sul corridoio in lungo, e poi in largo, fino a tornare accanto all'uomo.
Stavolta non Sofia, ma sono io a decidere di fermarmi.

"Ci ho pensato, e la risposta è: non lo so"
"...'non lo so', cosa?"
"il pianeta" 
punta l'indice in alto e
"il pianeta dei bambini è tutto loro, un mondo..."  
"...troppo lontano per sapere quale sia" 

Ci guardiamo.

Non ricordo altro.

14.10.10

Comunicazioni di servizio



"...Le conferiamo il titolo di Dottore in Biologia Cellulare e Molecolare con (ride) 110 su 110 (si smarrisce) e lode (non sente)"

quella che "lei è la piccola" anche con le prime rughe, i calli e qualche torto, di quello marcio, di quello che per un po' ci allontana
quella che in effetti, quando cede, le trema il labbro come una bambina, ed è struggente come il cedere di una bambina, e che da sempre, ancora prima di Sofia, ha scavato nello stomaco la fossa che oggi ho riempito con mia figlia
quella che fa i passi con incertezza, come se questo suo incedere fosse il suo credo ormai, ma alla fine, incrocio dopo incrocio, alla fine poi ci arriva sempre
quella che esibisce, a volte infastidita, a volte rassegnata, i suoi non possedere e appartenere, ma che "mia nipote" le scappa proprio
quella che non parla, ma dalla sua carne si vedono tutte le parole che avrebbe da dire
quella che però ora è seduta davanti a me e non riesce a smettere di parlare e raccontare, ancora e ancora e di nuovo ancora quello che oggi abbiamo vissuto e che io ascolto come  se ogni ancora fosse cosa nuova
quella che mi parla, e a cui io parlo, solo per comunicazioni di servizio
quella che non glielo dico, ché non so farlo, ché è da tanto che non lo faccio
quella che è una tenerezza al cuore, e nodo
forse uno dei più grandi


12.10.10

Maternità


La verità è che ne sono invischiata fino all'osso, di maternità.
L'osso, dove più in fondo non c'è.
Che ci provo spesso, dico l'osso, a portarlo su altre strade, a farlo respirare di altre arie.
Ma è pregno di una sola immagine, e di tutti i suoi pensieri, che fanno le parole, che fanno le storie, che fanno le immagini.
E lo so che di alcune immagini ci si può anche ammalare.
L'unica nuova strada, l'unica nuova aria,
è ancora dentro l'osso.
A percorrere la strada che deve percorrere, finché l'immagine ci sta.
E poi esce.


Rido
ché mi imbarazzo a far vedere l'osso.
:)

9.10.10

Sofia's anatomy

Sospetto che Sofia abbia inalato un oggetto. Lo sospetto perché è una settimana che non respira malgrado tutte le cure del caso. O forse è il sospetto di una madre troppo sospettosa. 
Per una volta desidero essere smentita.

Policlinico. Reparto otorinolaringoiatria.

Il Riccio è andato incontro alla burocrazia, io sono seduta su una panca con Sofia che dorme appoggiata al seno.
La panca sta di fronte la porta del reparto che si apre e si chiude ininterrottamente per far passare la fiumana di medici. E' un fiume inarrestabile, instancabile, in corrente e controcorrente. Si apre, si chiude, si apre, si chiude. Il fiume.
Questo fiume ha occhi che si posano su di noi. Sembrano tutti rapiti per sindrome di Stendhal di fronte a una "Madonna con bambina". Nessuno passa oltre indifferente.
Credo che l'immagine trasporti i tirocinanti in avanti nel loro desiderio e, i medici fatti, indietro in quello che hanno vissuto. Capisco quanto possa essere fortemente evocativa.
C'è da dire che io e Sofia siamo l'una riproduzione dell'altra, bellissima lei, io di riflesso in questo specchio, per cui l'impatto è forte: un'unica persona con due età, che culla e viene cullata, che si abbandona a se stessa e protegge il suo abbandonarsi.
E io mi presto a questi loro occhi, perché fa bene, perché per qualche istante si liquefanno.
La verità però è che sono piuttosto smaliziata rispetto a questa Maternità, ci sono dentro in ogni istante; per me non è un impatto, è il mio stato. E non ho alcun interesse ad osservarlo, oggi.
Io guardo altro. Guardo loro.

Medici e tirocinanti, tantissimi, mischiati per età e attività, tutti in preda all'estasi della frenesia per il controllo sulla vita altrui, la cura.
Non è che in questo reparto ci sia l'adrenalina da intervento dell'ultimo istante al Pronto Soccorso: non esiste un codice rosso per emorragia di cerume.
Eppure c'è un formicolio vivo, l'eccitazione, quella che solo i medici che maneggiano la vita hanno, fatta di piedi che battono sul pavimento veloci, di mani smaniose a riposo nei camici, sotto ai camici gambe vestite di un qualcosa molto lontano dalla sterilità della divisa, perlopiù jeans e carne vibrante, che si scuote direbbe splendidamente Capossela in Morna.
Storie che non raccontano soltanto di analisi, cartelle, strumenti, diagnosi, ma dicono di incontri mancati, anelati, consumati, attesi.
S'incrociano per caso, fanno in modo di incrociarsi, lanciano in aria una parola, forse quella rimasta in sospeso. A volte si sfiorano.
Mi fido di tutti questi visi, di questi sorrisi, di questi corpi. Sono vivi, sono sani. Chiamano vita.
Tranne una: lei è tirocinante e fa la dottoressa. Non ride.

Ci stiamo guardando tutti, qui. Tutti la stessa cosa.
Loro, questa mia maternità statica; io, il loro desiderio in movimento.
La stessa origine.



Vostro Onore, la teste non è attendibile.
Io sono quella che nelle due anestesie avute, una a 16 anni e l'altra a 28 post-partum, ai due Professori di turno in un sospiro narcotizzato ha pronunciato: "Nome e Cognome, io l'aamo".
Divento fango molle di fronte al camice. Fango molle che arrossisce.

Eppure, quando torna:
"Riccio, se ci dovesse arrivare la crisi veniamo qui, per la cura ormonale"
Ride.

Allora non è affatto soltanto una mia impressione.

5.10.10

I bagordi dei trentenni

Dopo cena, Veronica e il Riccio discutono di Sarajevo assediata, dello sguardo dall'interno della gente vessata dalla guerra, dove comunque riesce miracolosamente a sopravvivere una sorta di rituale del quotidiano. Discutono delle fotografie che hanno fatto il giro del mondo, e il Riccio, che ha l'occhio lungimirante, le parla di tutte le guerre i cui scatti non escono neanche dall'obiettivo che li fotografa perché non sempre le signore ferocia&morte vengono ritenute degne di posa, passeggiando ancora indisturbate nelle terre del Turkmenistan e della Georgia; discutono della bellezza scenica dei caschi blu, in molti casi slegata dal ruolo a cui sarebbe preposta, e della colonizzazione subdola del mondo di certuni autoproclamatisi senza possibilità di replica ammiragli della pace; e poi ancora dell'ultimo colpo di stato in Ecuador, dal sapore squisitamente vintage dei villani del Medioevo.
Continuano a pigolare di certe cose, ognuno seduto d'avanti al proprio computer.
Soltanto a letto smettono, perché la bambina dorme, e la guardano e si guardano, la guardano e si guardano, così per una decina di minuti.

E prima di iniziare la lettura della sera, alle ore 3, Veronica e il Riccio si danno la buonanotte e si dicono che magari  da questo momento in poi rinunceranno al caffè delle 20.

Ed è forse per il mal di testa della mattina che Veronica non è ancora ben sicura a cosa voler rinunciare: se alle eccitanti conversazioni notturne col Riccio e connessi sintomi post-sbornia dell'insonnia o a indolori e pacifici risvegli da serate borghesi.

4.10.10

Il passeggio domenicale

Svago.
Distrazione.
Ho sempre trovato questi abbozzi di attività ridicoli, al limite dell'amebetizzazione, della bestialità.
Come se ci potessimo permettere di andare altrove, di perdere i nostri daffare e le nostre finalità nella mollezza dello svago indistinto e vago, del passeggio senza meta, con l'unico scopo di non avere scopi. 

Sono sempre stata un animale da sofà, da sedia, da moto immobile poggiato sui mobili perché il pensiero non ha bisogno di gambe fisiche.

Eppure da quando c'è Sofia, da quando l'ora d'aria è diventata indispensabile, sperimento sempre di più il fatto che ci sono cose che non si trovano al di qua delle trincee di casa, che magari offrono il sollievo del rito domestico escludendo però il balsamo della vita nuova venuta da fuori.
Fuori c'è l'aria di strada, il carnevale delle storie umane assortite. Non si conoscono, non ci appartengono, ma sono tutte messe qui a vista, esposte tra i passi di questa gente, i loro visi.
E basta così tanto poco per riempire gli occhi affamati di movimento.

Stasera siamo in tre, in questa città che ho abbandonato ma che mi perdona ogni volta accogliendo, come se la mia storia anonima mancasse qui, nel brulicare di centinaia di storie anonime.
Andiamo a raccogliere quello che a casa ci manca, e il solo cercarlo ci mette forza, ci ristora.
Ecco che si fa per strada, passeggiando, mi dico mentre lo faccio: si fa quello che rende l'uomo Uomo, si cerca. 

Status diversi, abiti, voci, nomi, aspirazioni diverse, migliaia di sfumature di colori accomunati dalla stessa mancanza congenita e dallo stesso bisogno di colmare.

Gli occhi febbrili di cura perlomeno ci rendono fratelli, per strada.






Incontro una Romania stanca che s'inchina mentre suona e mi commuove.