30.3.10

L'incostanza dell'amor perfetto.


''Cosa ho fatto, Maestro?''
''Hai dato acqua ai tulipani, Mama''.

Maestro venne un giorno con in mano dei tulipani. Disse che avrebbe voluto raccontarmi. Rimase in silenzio per tutto il tempo che gli ci volle a disporre i fiori secondo i disegni della Kadō, e poi seduti cominciò.
Parlò di quanto lunghi fossero stati quei vent'anni sepolto in una stanza bianca ad aspettare il momento in cui avrebbe dipinto le mura d'azzurro e sarebbe partito. Venne il momento, e puntuale Maestro si allontanò portandosi dietro la sensazione che non sarebbe più tornato, e un pò di vernice azzurra nel caso se lo fosse dimenticato. Descrisse con tale ricercatezza dei particolari, come se le immagini fossero state custodite nella trama della pelle, la notte in cui, vestito da contrabbandiere di reperti archeologici, si mischiò al gruppo illecito, questi per trovare il Cristo d'oro, quella volta sperando fortemente, in segreto, che Dio li perdonasse, Maestro per cercare Nina, considerando neanche troppo segretamente che non avrebbe perdonato nessun "dannato Dio". Sotto le macerie sacre di St. Denis.
"Quando la vidi mi sembrò che stesse dormendo, Mama, tanto da allontanarle i detriti con cautela perché...". Cadde un petalo. Si interruppe, un rapido sguardo, e continuò. Cautela nelle mani e delirio della testa: "...non svegliarti, Nina"...perché non vedesse l'orrore. E un altro petalo ancora. Tutte le volte interrompeva il delirio per un istante e lo riprendeva salendo petalo per petalo le scale del dolore. "Non aprire gli occhi adesso, bambina. Tu che non li hai mai avuti. Ti ho dato in dote il bianco, Nina, o il nero, è uguale. Non un colore. Mai l'azzurro per te. Non svegliarti, Nina bambina mia, questo luogo indignato, tutto su di te, che cercavi... Cosa andavi cercando qua dentro?"...il delirio..."l'acqua è sacra ovunque quest'acqua che ti ha inaridito la tua mano muta ti chiudo gli occhi ancora una volta non guardare non svegliarti lassù ha il colore del tuo vedere ma non è il tuo abisso non svegliarti Nina". Non si svegliò.
Cadevano in processione i petali, dai tulipani.
''Tornai là, Mama, la stanza azzurra,"...si ritorna sempre... "portando mio figlio, tutto ciò che mi rimaneva, e in quell'azzurro lo feci giocare con le pietre di St. Denis perchè sapesse delle direzioni che un uomo può conoscere, il cielo e la terra, il cielo e l'abisso, il cielo e le macerie."
L'ultimo petalo della processione cadde.
"Adesso è perfetto" - disse Maestro. E cominciò, un'altra volta. Non chiesi, ma quello era il racconto che mi aveva portato, assieme ai tulipani.
"Vedi, Mama, abbiamo dato due interpretazioni simboliche al tulipano. L'una, visione occidentale, dice dell'incostanza, l'altra, orientale, dell'amor perfetto. Ma il cielo sulla terra"...sempre il cielo e la terra, con Maestro..."non guarda nessuna direzione"...e le direzioni..."non c'è Oriente, non c'è Occidente, ma un unico circolo, un'unica interpretazione dell'unico tulipano. Ogni cosa segue l'alta e bassa marea, si muove con essa, s'accascia per poi risalire: è il movimento, il respiro delle cose"...la mano inerte di Nina..."Le metropoli sono sfibrate nell'impegno duraturo che hanno a non fermarsi mai. Ma è l'intermittenza la vera energia, il resto è nevrosi. L'amore porta con sé l'incostanza e l'incostanza tende sempre a risolversi. Il tendere è sempre stato amore". Silenzio.
"Alla fine perdonai Dio", disse Maestro. "Non perché quella notte gli fu portato via per l'ennesima volta il figlio: non eravamo affatto pari. Il Figlio era già tornato a Lui, io avevo perso Nina". Silenzio. "Lo perdonai perché fui io a mandare mia figlia a St. Denis. In un attimo di incostanza."



Sì, conoscevo anch'io i tulipani.
Le volte che avvelenai la mia terra, la mia radice, mia madre, dandole le colpe di quello che ero e di quello che non ero, di quello che era e di quello che non era.
Quella volta, quell'unica volta, che stretta nella morsa delle mani, seppur piccole e fievoli, di mia figlia, la allontanai guardandola come non avrei più fatto. E per un attimo, per la prima volta, fu e si sentì sola.
Tutte le volte che facevo in macerie i gesti del mio compagno, il mio Leàn, facendomi padrona non dei miei sentimenti verso di lui, che erano per lo più indiscutibili, ma dei suoi su di me.
Sì, avevo anch'io i tulipani. E le macerie di St. Denis.
Per fortuna c'era Maestro, che portava i racconti dell'amor perfetto senza indignarsi di fronte all'incostanza.
"Cosa ho fatto, Maestro?"
"Hai dato acqua ai tulipani, Mama"



A Lé. Oggi due anni di tulipani. E d'azzurro.

Qui sopra: Roberto Rampinelli, "Tulipano", olio su carta a mano intelaiata, cm. 27x36

24.3.10

Il groviglio di Morfeo.



Adagiati, l'uno estensione dell'altro, navigano in direzioni casuali.
Promontorio del loro silenzioso dondolìo li aspetto arrivare. Sono qui, siamo ancora assieme. Ma loro stanno facendo una loro qualche storia e io la guardo.

20.3.10

Camera con vista sul water.

Sofia ha posto uno spartiacque tra il mio ieri - dall'istante in cui sono nata io fino al secondo prima che nascesse lei - e l'oggi.
Tutto quello che è stato prima, facendo le dovute estrapolazioni come la favola metaterrena mia e di L. con epilogo Sofia, e un paio d'amicizie dalla forza ventennale, viene catalogato dal mio database cerebrale sotto l'etichetta 'un tempo'.

                                                                                                                        Un tempo sembra che il mio più alto appetito fosse quello di trovare un luogo. Il luogo dove potessi sperimentarmi al meglio. Doveva avere caratteristiche precise, ma più di ogni altra cosa doveva essere contenitore, attivo, delle mie esperienze. Alle volte davo maggior tensione più al luogo che non ai contenuti. Non so, ma partendo dalla superficie riuscivo ad andare a ritroso fino alla radice delle mie questioni. Così era un balcone sul lungomare della mia città, la circonvallazione in macchina, il chiostro del monastero della mia Facoltà, e la mia camera, meravigliosa rappresentanza delle mie vicende.
Oggi, con Sofia che si espande a macchia d'olio negli spazi di casa e della testa, il bisogno d'architettura di tutte le mie personali considerazioni si estingue in un budello di 1,5m x 3m: il bagno.
Il fatto è che se non siamo assieme Sofia urla, urla, urla, piange a volte, ed urla: non posso permettermi di sollazzarmi seduta comodamente in poltrona ad appagare le mie personali voglie a scapito delle sue, senza pagare uno scotto. Recentemente ho scoperto che la sterilità del bagno mi dà il permesso di assentarmi da lei e presentarmi alle mie urgenze intellettuali senza molti sensi di colpa. 5 minuti di privacy alla toilette non si rifiutano a nessuno. E così 5 minuti per ogni ora passata con Sofia, che sono circa 14, fanno ben 70 minuti di autonomia dove mi concedo la lettura di qualche rivista, il libro del momento, l'aggiornamento del mio diario, l'approfondimento della materia da dare, settimana enigmistica e meditabonda sigaretta.

Sono così i nostri figli: ci fanno regine della loro esistenza ma ci confinano nella parte più alta del castello.
O in quella più infima di casa.
Minuti scaduti. Vado.

13.3.10

Donne dell'altro mondo.

Siamo complicate noi donne. Creature caleidoscopiche dotate di ali talmente grandi e multicolori da fare voli pindarici fin troppo oltre, non le nostre possibilità, quanto piuttosto le nostre reali esigenze. E forse è questa la nostra più alta esigenza: quella di andare oltre.
Pretendiamo di fare le pulizie di pasqua in tacchi a spillo mentre tra una pezza e l'altra risolviamo problemi di lavoro, controlliamo la crema francese nel forno, aspirapolvere in una mano e penna dall'altra, consoliamo i nostri bambini, facciamo biscotti e invitiamo amici a cena. Altro che cervello multi-task. Siamo prove viventi della validità della teoria delle stringhe.
E non è mai abbastanza.
Eccolo il nostro stendardo.
La fuga della mattonella non è mai abbastanza bianca, il tacco non è mai abbastanza alto, i biscotti non sono mai abbastanza croccanti, non siamo mai abbastanza efficienti professionalmente, non scriviamo mai abbastanza acutamente, la crema francese non è mai abbastanza francese.
Siamo pendoli che pretendono di oscillare toccando tutte le forme del vivere: din - meticolose e spietate macchine di perfezione, don - fluide rappresentazioni della morbidezza; din - autoritarie e incorruttibili, don - tolleranti madri del genere umano; din - irreprensibili sacerdotesse, don - ballerine ebbre di taranta a piedi nudi; din - eteree forme celestiali, don - strumenti dell'incarnazione dionisiaca. din don. Coerenti e flessibili. din don. Silenziose e insidiose creature parlanti. din don. Femmes fatales e geishe. Ingegneri dell'ordine e audaci scultrici del caos. Misteriose e pubbliche. Programmatrici e cavalle imbizzarrite. Fedeli al nostro tempo e libere pensatrici. Estete della forma ed estete dello spirito. Abbondanti e sobrie. Esili e radicate. Delicate e crudeli. Educate e irriverenti. Lupe e arrendevoli. Tutto o niente. Din don din don din don. In ciascuna di noi.

E mentre questo nostro mondo va così, votate orgiasticamente come siamo alla causa perfezione, io sono lontana mille miglia dal non è mai abbastanza. Tutte quelle aspettative per le quali tribolare e di cui vorrei vestirmi sono approdate in un luogo lontanissimo.
Per me, con Sofia, non è mai. Mai crème brulée.
Sofia ha 9 mesi, 13 chili in 80 centimetri. E' una straordinaria bambina vorace di ciò che le si manifesta di fronte, vorace del cibo, di immagini, di suoni, vorace di parole, di sapere, vorace di succhiare le pagine di questa vita. E' soprattutto vorace di me. E dunque io sono strumento del suo affacciarsi al mondo. Tutto il giorno, ogni giorno. Nient'altro. Giochiamo, balliamo, cantiamo tutto il giorno. Nient'altro. Ci incantiamo tutto il giorno. In-in-ter-rot-ta-men-te. Nient'altro.
E in questo nostro stupirci ed il suo crescere sublime, a me sembra di sparire. Mai per lei ma per me. Deve essere così, perché l'idea che ho d'esser madre non abbia mai a che vedere con il non è mai abbastanza. Ma adesso è quanto mai vero questo mio non essere assolutamente abbastanza, che si rivela soprattutto la sera, quando i giochi sono fatti. Tutto si ferma.
E c'è lui.
La stanchezza ha stordito il mio corpo e ammutolito i sentimenti più delicati, i pensieri non hanno modo di posarsi e vorticano come dervisci.
Lui mi chiama.
E io dormo.
Dovrei scrivere, dovrei studiare. Dovrei correre. Dovrei chiamare Vì. ed S.
Lui mi guarda.
Io dormo.
Dovrei pulire, dovrei cucinare. Dovrei leggere. E sopra ogni altra cosa dovrei stare con lui.
Ma io dormo.
E lui mi aspetta.
No. Decisamente non è abbastanza.
Din don din don din don din don din don.