6.10.14

43

Passo tutto il pomeriggio a leggere un libro sdraiata sul letto. Ogni tanto alzo gli occhi dalla lettura e guardo i calzini che indosso, il loro cotone poco convinto di esserlo, e il modo in cui i miei piedi se ne stanno molli sul letto. È la stessa posizione di quando ero ragazza, penso, è lo stesso modo di trascinarmi nei pomeriggi, è lo stesso casino del letto disfatto e disfatto tutt'intorno. I miei jeans a terra, appallottolati insieme ai calzini di ieri e una maglietta bianca.
È una forma che conosco benissimo quella dei vulcanelli di tessuto sbucati dal pavimento di una stanza da letto. Non mi sono mai preoccupata tanto dei miei vestiti. Non sono mai stata una che per dormire in pace ha bisogno che i vestiti stiano ripiegati e ordinati sulla poltroncina.
Penso che la mia pace notturna abbia bisogno di sostenere questioni di ben altro genere di ordine da quello dei vestiti. Lo penso come potrebbe farlo un ateo quando a volte per un attimo gli assale la dolcezza della promessa di pace che avrebbe se solo bastasse quella risposta definitiva e senza proteste e il mondo tornasse in silenzio. A quanto sarebbe più facile se solo avesse quella maledetta fede. 
Penso a quanto sarebbe più facile se solo bastasse avere dei vestiti piegati su una poltroncina.
Invece mi piace arrivare la sera all'ultimo minuto prima di crollare togliendomi con fare vago i vestiti e buttarli dove capita prima. A mia madre verrebbero gli attacchi di panico nel sonno a pensare a un tale disastro. Io lo trovo un gesto liberatorio. Sono gli ultimi colpi di coda di certi tratti dell'adolescenza mai del tutto risolta, lo so. E oggi non mi crea conflitti saperlo. Sapere che a 34 anni posso ancora a tratti ritenermi libera da certi doveri di donna adulta mi rilassa.
Guardo la chincaglieria polverosa e lontana dal suo solito posto assegnato da chissà quali mediocri regole d'arredamento.
Una volta gli oggetti avrebbero costituito l'unico elemento di disturbo al mio fare disordinato. Se da terra fino all'altezza del letto potevo ammettere con una certa forte dose di tolleranza il disastro, non ho invece mai tollerato il disordine delle forme sulle mensole, i tavolini, le cassapanche, le librerie. Ogni oggetto doveva stare incollato nell'angolo di mondo che gli avevo riservato. Un centimetro di dissonanza mi sembrava intollerabile. In questo ero una specie di nevrotica di fronte ad un quadro non perfettamente allineato.
Oggi invece trovare la giraffa a terra, il gatto di legno sul comodino, la lanterna con la finestrella aperta, mi da esattamente il senso della quotidianità che costruisce le sue storie mettendo fuori posto gli oggetti. La quotidianità non ha altro modo di parlare se non attraverso la voce degli oggetti mossi.
Quella che sta parlando adesso nella stanza da letto è il lavorio di Sofia che ha da poco armeggiato con la paccottiglia degli adulti. Le ho sempre permesso di toccarla. Ho sempre pensato che la bellezza delle mani di mia figlia impegnate a rimaneggiare di nuovo i miei ricordi immortalati sugli oggetti valesse molto di più del rammarico di perderli.
Così quando alzo gli occhi dal libro e guardo le lenzuola stropicciate, attorcigliate attorno al mio corpo sdraiato, il comodino traboccante di altre letture, fogli di manoscritti sparsi, diverse paia di scarpe di tre misure, stili e colori diversi seminate tutt'intorno, già sazia e morbida di tre ore mute di lettura, sento che la mollezza non s'incaglia sugli spigoli del disordine ma continua a sciogliere la pancia.
Leo viene a guardarmi, si ferma prima della porta, è un suo modo tenero ed educato di non infrangere questa specie di luogo intimo che mi sono ritagliata senza il consenso di nessuno tranne che il mio. Rimane lì, mi guarda, poi se ne torna di là. 
Entra solo per portarmi la tazzina di caffè fumante. Ammicco un po'. Il modo in cui sto sul letto, le lenzuola e i capelli scompigliati, la mollezza, il caffè. È come il nostro dopo aver fatto l'amore. Leo se ne torna di là ridendo.
In questi giorni mi prendo certe libertà, certe scivolate di stile. Ammicco, scuoto le tette come un'africana disinibita, mi rigiro sul letto languida come una Marilyn catanese mora improvvisata. 
Ho perso dieci chili.  E acquistato altrettanta sfrontatezza.
L'essere adulta mi ha resa diversa. Mi guardo e mi trovo bella.
Ho addosso dei Gas taglia 29. Mi son fatta il conto con la valuta europea e sulle mie chiappe porto la bellezza del 43. Con il resto di mezzo punto.
Ci sto comoda in questo 43. Mi s'incolla come pelle nelle parti calde ma resta largo e rilassato sulle cosce.
Penso che l'aut aut della taglia in questa parte del mondo sia l'esatta descrizione dei tempi che stiamo vivendo. O 42 o 44. 
Nessuna comodità del mezzo punto per te, bellezza. O ti adatti o vai in mutande.
Io me lo chiedo spesso com'è che la gente abbia questo dono innato di adattarsi ai canoni di questa vita. Me lo chiedo quando vedo qualcuno vestito per il pomeriggio e poi si cambia per la sera. Me lo chiedo quando sento qualcuno che sta cambiando il piano tariffario del suo gestore di telefonia. Me lo chiedo quando penso al sabato che è il giorno del parrucchiere. 
Io non ho mai avuto questo dono. Si vede perfettamente adesso che sono sdraiata sul letto a godere di questa lettura straordinaria, mentre la mia casa va a scatafascio. Si vede in tante altre decine di cose. Si vede anche su Leo.
Si vede che non ci siamo adattati affatto e che stiamo ancora cercando. Di adattarci? Non lo so.
Mi viene in mente la cassiera all'Auchan dove andiamo a fare spesa. Ha una capigliatura nero corvino lunga, ondulata e selvaggia, raccolta malamente in una specie di chignon incazzato. Me la immagino prendersi i capelli malamente, arrotolarseli alla bell'e meglio e venire qui, in cassa, a passare per l'ennesima noiosa volta una cena come tante, del pane, una zuppa, del formaggio. A volte mi assale una specie di irrequietezza nel veder spiattellata con così poca cura, su un bancone di alluminio, la mia intimità, la mia cena, quello che intorno a quella cena succederà. Mi pare che non veda l'ora di tornarsene, mi sembra una che non appena a casa non pensi ad altro che sciogliersi i capelli. 
Mi chiedo se adattarsi significhi questo. Farsi odiosi chignon e poi scioglierli e poi rifarli e poi riscioglierli.
Guardo Leo pagare. Ha dei mocassini in tinta con la polo. Ha fatto la barba, profuma di uomo, saluta la cassiera e le augura una buona serata. E mentre sciorina la sua più naturale cordialità mi chiedo se ci siamo adattati anche noi. Stiamo per farlo? Ci stiamo preparando a diventare dei perfetti noiosi borghesi, fingendo di avere ancora la possibilità di scegliere di non diventarlo?
Lo scorso week end abbiamo concesso a Sofia il suo primo Happy Meal. 
Siamo entrati in silenzio, parlando a bassissima voce, forse con lo stesso disagio di uno che ha passato per quarant'anni ininterrotti le sue serate in una balera sporca e puzzosa e poi all'improvviso si è ritrovato alla Scala con addosso ancora la puzza di vino scadente e le carte da briscola in mano.
Solo che al contrario. Eravamo stati alla Scala e ci siamo ritrovati in mezzo ad una bisca clandestina vestiti di seta, nudi.
Ci siamo sentiti nudi.
Abbiamo continuato a stare lì in silenzio, anche se leggeri, sorridendo a Sofia che scopriva il suo primo panino del peggior fast food al mondo, battezzando l'ingresso con il classico scarto del cetriolo.
La gente stava lì come se non avesse fatto altro nella vita.
Riconoscersi ancora diversi da quelle cose, riconoscerlo ci ha sollevato.
Ce lo diciamo spesso in questi giorni io e Leo.
Ci ritroviamo uniti contro questa specie di follia urbana che ci circonda. 
Sappiamo che dobbiamo andare via, che un posto, se un posto c'è, non è qui. 
Abbiamo definitivamente scoperto, e accettato anche, che ci manca quel dono, forse, quel dono di saperci adattare, quel dono di trovare nelle cose una specie di sazietà.
Abbiamo fame. 
Abbiamo voglia di andare a vedere come poterci nutrire altrove di altre cose.
Io porto una 43.
È comoda.
Forse, come tutti, stiamo solo cercando quel posto dove fanno la 43.

18.9.14

L'Italia ha vinto il Telegatto

Ho 33 anni. Sono donna. Sono mamma.
Praticamente sapete già tutto. Almeno se avete bisogno di collocarmi in qualche statistica, cucirmi addosso qualche status, avete tutte le informazioni che vi servono per inserirmi nell'Italia di oggi.
Mia figlia è arrivata cinque anni fa, quando lo zoccolo della crisi si faceva incontrovertibilmente duro a dispetto di sedicenti cure di volta in volta sciorinate da sedicenti podologi, quando qualcuno cominciava a mentire con la storia dei ristoranti pieni, con la stessa facilità di una hostess a palesare la menzogna sfoggiando il suo miglior sorriso di circostanza, addosso il giubbotto di salvataggio e tutto intorno il panico.
Qualche anno fa sentimmo per la prima volta "choosy". Anche l'italiano medio che nelle file delle etichette stereotipate era uno dei personaggi cardini de "l'inglese e l'ostrogoto" capì il senso dello sberleffo e tra una casa pignorata e l'ennesimo piatto vuoto a cena quella volta, per la prima volta dopo mesi di apatica rassegnazione, ebbe un improvviso moto caldo di gastrite da fame che dalla bocca dello stomaco salì fin sulla testa, si sentì rosso fuoco, e si indignò.
Io ai tempi studiavo filosofia. Me la prendevo con comodo attraversando i grandi corridoi della facoltà, perfettamente inserita in quell'ambiente che nelle mie passate intenzioni ero certa avrei frequentato per tutta la vita. I professori mi avevano soprannominata "la Romantica" per una teoria che avevo formulato e che era stata accolta dal gruppo accademico con entusiasmo. 
Vivevo ancora nel mondo delle favole e mentre i pilastri dell'esercizio commerciale della mia città cominciavano ad abbassare le saracinesche io, da brava abitatrice del mondo delle favole, archiviavo il fatto come "libero trapianto verso paesi esotici, culi sodi e tequila boom boom". Olé.
Mia figlia nacque sotto il segno zodiacale della Crisi. 
Fu un precipitare. Di mese in mese. Di menzogna in menzogna sciorinata in tv.
Il mio compagno, all'epoca video editor e musicista, si ritrovò sui tetti delle case a installare antenne e digitali terrestri, un tetto sì e mille no, un pagamento sì ed n alla milionesima no, virando magistralmente all'ultimo secondo prima dello sfratto, un mensile pagato sì e certi altri no.
A me, pseudo filosofa con a tratti velleità da scrittrice, praticamente una totale ammissione di colpa  ai colloqui di lavoro, con figlia a carico e per quattordici giorni, sedici ore, quarantaquattro minuti e trentatré secondi fuori dalla categoria che ti faceva in un batter d'occhio giovane o vecchio e che poteva garantirti quello straordinario ultimo baluardo di salvezza che era il contratto di apprendistato a vita, non mi rimaneva altro che lavare piatti in pasticceria.
E se buttavo un occhio per affinare le tecniche di uno dei miei hobby, si sa mai, venivo redarguita come fossi stata Eva col peccato originale e rispedita a toglier l'unto dalla pentola. Ché qui siam mica l'America. Qui se nasci lava piatti morirai lava piatti. Nei secoli dei secoli. Se ti va bene.
Sono passati cinque anni.
Se oggi è il giorno dell'arrosto al forno e l'incrostazione non vi si toglie, portatela a me. Oggi non sono più "la Romantica". Oggi mi chiamano Linda. Mastra Linda.
Il mio compagno è invischiato in un traffico di viaggi nel tempo e di salti quantico-temporali: istalla nuove antenne aspettando ancora i pagamenti di quando le tv erano in bianco e nero. Nel frattempo è impazzito e canta "come tutti i gatti vivo sopra i tetti appoggiato all'antenna centrale, io controllo la tv locale".
E a proposito di gatti, la mia gatta, cresciuta a pranzetti che se vi fosse mancato il salmone per le pennette avreste potuto all'occorrenza prenderne a prestito dai suoi, oggi si è rassegnata a mangiare i nostri schifosissimi resti. La storia che non c'è più trippa per gatti non è solo una storia.
Io non sono mica un'economista raffinata, non ho teorie salva mondo, ma mi rendo conto che se è già da un pezzo che io e il mio compagno inganniamo il giorno del pesce con una di quelle scatolette dal contenuto cotonato e petrolchimico, per gli amici tonno, e come noi anche i nostri amici, e gli amici degli amici, a macchia d'olio e di sinergia estesa, come una specie di Facebook della povertà, allora mi vien facile pensare che la giornata del tonno toccherà tutti prima o poi, ma proprio tutti, come una specie di virus, di epidemia.
Dopotutto questo è il mercato globalizzato, bellezza. Nel bene e nel male, finché morte non ci separi.
E in questa specie di guerra dei Roses, al momento l'unico bicchiere mezzo pieno che riesco a intravedere è questo: che solo le aziende di tonno si salveranno.



12.9.14

Vento contro

Treni in corsa. Qualunque sia la meta, siamo sempre e comunque dei treni in corsa.
Un bolide d'acciaio in corsa, il vento scagliato a chilometri orari di velocità che toglie il respiro, la terra sotto come olio dove si scivola distratti e inconsapevoli di quello che c'è attorno.
E il dramma non è questo. Non è correre alla cieca con tutte le cose che scappano pazze intorno. Non è nemmeno il qualunquismo della meta mai definita. Non è l'essere treni in corsa. 
Il dramma è quello di voler credere di stare arrivando, di starci fermando, di star per prendere respiro. 
Un rimando indefinito senza soluzione, un'utopia spinta sempre oltre, in avanti, correre sempre per non arrivare mai.
Il dramma è non voler riconoscere una sorta di bellezza, di potenza, di leggerezza nell'essere bolidi in corsa senza stazioni definitive dove fermarsi.
Le stazioni. Ci saranno pure le stazioni. E ci sono. Salvifiche terre franche di quiete. 
Le stazioni sono bar notturni pieni di luci gialle e alcool, sono case di mattoni e tende inamidate, sono stanze, sono piazze, sono luoghi di incontro tra persone, sono persone, sono storie d'amore, sono gesti d'amore, sono progetti. 
Sono anche e soprattutto calcoli errati. Come possiamo calcolare se non conosciamo i dati in nostro possesso, loro, che ci arrivano addosso senza che possiamo controllarli?
Le stazioni si incastrano benissimo sulla corsa, sono la nostra zona d'ombra e di ristoro. 
Ma quello che ci manca per dar loro il giusto peso è il senso del tempo: non abbiamo abbastanza senso del tempo per riconoscere che sono solo banchine di passaggio. 
Dopotutto ce lo siamo inventati il tempo. Il tempo è un disegno su una carta bianca, uno scarabocchio al quale abbiamo cominciato a credere. E ci è piaciuto così tanto sto scarabocchio che abbiamo cominciato a espanderlo, a farne dei ghirigori, lo abbiamo ricoperto di sfavillanti colori a olio e foglie d'oro. Ma rimane comunque che è uno scarabocchio.
E adesso ce lo portiamo addosso. Chiediamo a lui delle nostre azioni, delle nostre scelte. Lo tiriamo fuori dal taschino ogni volta che guardiamo il viso con le rughe, ogni volta che crediamo di stare scegliendo, ogni volta che tiriamo in ballo la nostra vita. 
La nostra vita. La vita non può mai essere nostra, via. 
È nostro solo il piccolo pezzetto di racconto che usiamo per raccontarla. Quello sì. Viviamo le cose. Le cose ci capitano. Ci accadono. Ma non sono le cose che ci accadono ad appartenerci. È quello che facciamo di loro attraverso il racconto, quello sì che ci appartiene. Le parole che scegliamo per raccontarli, sì che ci appartengono. 
Allora ce la raccontiamo in un modo questa vita, o in un altro, o  in un altro ancora, un modo comunque lo troviamo, dobbiamo pur trovarlo per capire. Ma cosa capiamo poi davvero se il racconto lo si inventa, lo si sforma, cosa potremmo mai capire se il racconto è la bugia che ci stiamo raccontando solo per il bisogno di averla, questa bugia.
Con le stazioni facciamo così. Ci inventiamo che siano casa nostra. La meta finale, insomma, dove il bolide stanco si cura le ferite del viaggio. E magari è anche così. Ci si ferma un po' per riposare. Per togliere le foglie, le sterpaglie, la terra, i graffi, l'arsura dei venti in picchiata. 
Ma non abbiamo abbastanza senso del tempo e così ci raccontiamo che quella stazione sarà nostra per sempre. 
Ma nostro e per sempre sono solo dei racconti malandati e scricchiolanti che ci raccontiamo.

Nostro e per sempre è solo il viaggio. È il correre. È avere il vento contro per tutto il tempo.
Ed è questo poi alla fine quello che ci tocca fare, l'unica vera assoluta cosa da fare. Nient'altro. 
Essere bolidi d'acciaio in picchiata contro vento. Ché se ci fermiamo per troppo tempo moriamo di ruggine. 
È il vento contro, scagliato a chilometri orari di velocità, che ci da esattamente la misura della nostra resistenza.

9.6.14

Rotonda

... dovreste immaginarla, poi, mentre pronuncia bisticcio
È la sua rotondità che mi stupisce. 
Se ci fosse una possibilità, anche una sola possibilità, matematica, o poetica, o folle, per oltrepassare il limite della rotondità massima, e dunque in fine della circolarità massima, e attribuire un superlativo, se dopo aver usato migliaia di volte un compasso, dal centro alla circonferenza, dal centro alla circonferenza, dal centro alla circonferenza, migliaia di volte così, dal centro alla circonferenza, e alla fine, dopo migliaia di volte, tra migliaia di cerchi tutti uguali, lo si potesse dire di un cerchio che fosse ancora più circolare, "è il cerchio più circolare del circolare" e dunque in fine più rotondo del rotondo, ecco, lo si direbbe su questa bambina.
È tutta un cruccio mentre dice bisticcio. È il suo cruccio. Per me è un'inezia che non diminuisce di niente la sua rotondità.
Ma chissà. Forse se esistesse, anche un Dio penserebbe lo stesso a guardarci crucciare di inezie.
Come per E., talmente ubriaco da non riconoscere più la differenza tra un whisky e un bicchiere d'acqua, il vomito da un'orzata. Un giorno ha deciso che sarebbe morto annegato di liquidità ma siccome lavorava al porto e sapeva nuotare benissimo gli venne il dubbio che non potesse mica morirne dal di fuori, di liquidità. Decise di farlo dal di dentro. E così è stato.
O come per M. che adesso è felice che il suo corpo un giorno si sia spento, così, spento, non morto ma spento, avete presente quei corpi spenti, no?, che fanno tutto, che fanno tutte le cose della vita, ma in ogni caso sono spenti, avete presente, no? Ecco, era così adesso il corpo di M. sotto quel vecchio puzzolente e bavoso, per fortuna il suo corpo era spento.
Ed L. di cui era scritto che prima o poi avrebbe avuto successo. Lo sapevano tutti, a guardarlo, che un giorno avrebbe avuto successo, tutti lo sapevano leggere quello, era scritto così chiaro che L. avrebbe avuto successo. Il problema però per L., e solo per L., certo, era che dove era scritto che prima o poi avrebbe avuto successo non c'era scritto nulla di più. Nessuna indicazione, nessun consiglio, nemmeno un indovinello, una caccia al tesoro, nulla. Immaginate una cartina geografica bianca, senza terre, senza laghi, senza strada, nulla di nulla, niente di niente, solo città, sparpagliate sul foglio bianco una costellazione di puntini neri, le città appunto, ma senza un senso apparente, senza la base stabile della terra, o anche solo di linee, quanto sono belle le linee, cosa faremmo, dove andremmo se non seguissimo linee? Perciò di L. era scritto che un giorno avrebbe avuto successo, c'era scritto davvero, tutti lo leggevano, ma su una cartina che praticamente era una mappa dell'universo. Alla fine gli venne una vertigine talmente grande che un giorno all'improvviso stabilì che il punto che gli era toccato in sorte fosse la sua poltrona. Aveva ormai quarantacinque anni e già da cinque stava su uno di quei punti a caso di quella mappa.
Così.
Ognuno, insomma, col suo cruccio. Inezie forse per un Dio, se esistesse.

Perciò rimane il fatto che per lei, bisticcio è il suo cruccio. Provo a rassicurarla in qualche modo, a darle soluzioni, ma lei ripete bisticcio così tante volte che ormai mi son persa nella sua rotondità, dovreste immaginarla mentre pronuncia bisticcio, è sempre tutta rotonda, il viso, gli occhi, le guance, il mento, i capelli, le braccia, tutta fino ad arrivare ai piedi, tutta, ma quando pronuncia bisticcio è ancora più rotonda.
Dovreste immaginarla.
Potrei farvela vedere, e voi guardereste ma senza trovarvi rotondità, non più di quella che vedreste sul bordo di una tazzina di caffè, una circonferenza piena e totale, massima, ma senza quel superlativo che vedo io.
Insomma, io dico che è una questione di appartenenza, e solo così potreste capirlo. Quello che ci appartiene, persino il tavolo su cui mangiamo fatto di spigoli, è rotondo, di quella rotondità superlativa che ci fa perdere testa. Non è una questione di forma. Deve essere piuttosto la lente interna con la quale vediamo le forme. Sono rotonde le cose che ci appartengono, le cose che amiamo. Di una rotondità superlativa. Le cose che amiamo sono più rotonde del rotondo.
È così adesso, mentre pronuncia bisticcio.
Mi chiedo poi chi le abbia mai consegnato questa parola. Mica io. Sarà stato certo quel modo tutto virale che abbiamo noi di imparare le cose. Federica l'avrà detto a lei. A Federica l'ha detto Giorgia. A Giorgia l'ha detto Michele, a Michele l'ha detto Lorenzo. Chissà quanto misura la lunghezza della catena che è arrivata a lei. Ma alla fine, o all'inizio, sì all'inizio della catena sono certa ci sarà stato un adulto.
Bisticcio non è una parola che i bambini hanno dentro. I bambini portano dentro parole più belle come acqua, mamma, saltare, patatine, piedi, culo, triste, felice, zucchero, casa.
Bisticcio è una sciocchezza di parola che i bambini non porterebbero mai dentro. Perciò deve essere stato di sicuro un adulto. Soltanto gli adulti possono consegnare ai bambini catene che iniziano con bisticcio.
Ad ogni modo:
"Federica dice che devo volere bene a lei e non a Martina".
"Tu dille che puoi voler bene a tutt'e due".
"E lei fa bisticcio".
... bisticcio...
... bisticcio...
... dovreste immaginarla, poi, mentre pronuncia bisticcio

27.4.14

Concime per il gelsomino

Cinque anni fa prendevamo casa, compravamo mobili e accessori, discutevamo su quelli che la gente mediocre chiama con vaghezza e timore progetti ma che per noi erano ovvietà, davamo battesimo ad ogni piccola modifica di casa facendoci su l'amore, eravamo ricercatori certosini di quell'oro che nel tempo sarebbe stato cifra e pelle tatuata di casa nostra: gamberoni, biscotti, carni, sughi, cioccolate, crepes, vini, libri, tende bianche di velo e di lino, calzini dimenticati in fondo al cesto della biancheria, filavamo lenti la maglia intricata dell'odore di casa e aspettavamo così, senza fretta, con il senso del tempo già compiuto, Sofia. 
Ma non è mai compiuto il tempo della maternità fino all'ultimo istante. Si arriva con quell'amore acerbo per gelsomini profumati e cani indifesi. Fino a quel momento la maternità è un senso di autocompiacimento e di fiducia per questa bontà generale e vaga nei confronti del mondo, tiepido e inesploso come due tettine abbozzate di una preadolescente. È solo nell'ultimo definitivo istante, fatto di sangue, umori, tocco e pelle nuova, che la maternità arriva senza corone di gelsomini e mugolii di cani, né vaga di bontà. La maternità esplode di bellezza a fiotti di affanno, dolore, sudore e rughe e si porta addosso due tettone giganti svuotate di latte e di smagliature.
Ma questo sarebbe arrivato dopo.
Nel frattempo, aspettando Sofia, piantammo nel giardinetto due gelsomini alti di un anno. Ci piaceva accoglierla nell'odore che avevamo costruito dentro e quello di miele del gelsomino fuori. 
Ma in questi cinque anni il miele è stato sempre poco e i due gelsomini son rimasti alti allo stesso modo.
Abbiamo innaffiato, dissodato, tolto le foglie secche, concimato con gli scarti del melograno accanto, ma niente. I gelsomini non sono mai esplosi. Nemmeno sotto ordine perentorio della primavera. Sono sempre rimasti in bilico, tra la rinuncia e la fioritura, in perenne lotta sul da farsi. Siamo sempre stati convinti che dopo ogni inverno li avremmo dovuti restituire al melograno come pagamento e nuovo concime.
E invece sono ancora lì.
Sopravvissuti persino alla furia del cane, un cucciolo di mesi gigante e stercaiolo al pari di una mucca. Ha deciso che i bisogni vanno fatti lì, dove mangia e dorme, tutt'intorno ai gelsomini. Mesi e mesi di vangatura del terreno hanno portato ad un tanfo indelebile, che si fa feroce quando piove e quando fa sole forte. Lo sterco mischiato al terreno è una poltiglia indistinguibile marrone che pestiamo e portiamo dentro casa. 
Lavoro tutto il giorno, non mi ricordo più del profumo di mia figlia, torno spezzata senza nessuna voglia di giocare e men che meno di salvare casa dagli intestini sciolti del cane. Il senso di colpa per quello che non sono mi attanaglia, quelle che mi sembravano una volta ovvietà adesso sono i progetti lontanissimi e di difficile fattibilità di una persona mediocre, i mobili si son scheggiati, graffiati, impolverati, il lino delle tende si è raggrinzito, il tempo è uno schizofrenico che non mi da tregua, e gli odori di casa son diventati la firma di un cane che defeca di fronte le finestre di casa ormai sempre chiuse.

Però per la prima volta i gelsomini sono rigogliosi e in fiore.

2.1.14

Bagaglio a mano


2 Gennaio 2014.
Come sempre ho guardato fuori dal finestrino per tutto il tempo. È l'unico modo che ho per avere coscienza della grandezza. È un pensiero stupido e ridondante, da formica anonima che porta a spasso le sue misere zampette nel mondo, la sua piccola storia mediocre che non ha nemmeno l'originalità d'essere mediocre mescolata com'è a casaccio dentro a miliardi di storie dello stesso genere. Ma non ho altra ambizione io che essere quella che sono, formica anonima, tranne che a volte sentirmi la grandezza addosso. Per questo non posso fare a meno di starmene attaccata al finestrino e guardare. Se chiudo gli occhi c'è ancora verde e azzurro e poi le luci della sera. La grandezza nascosta nel buio un po' mi inquieta, mi sembra famelica senza la dolcezza dei colori del giorno. Mi piace partire dopo pranzo. È l'ora più silenziosa dentro il pullman. Che siamo cinque o trenta non fa poi molta differenza a quell'ora. A quell'ora è come se non fossimo dei veri viaggiatori con una meta, uno scopo, una traiettoria scelta. A quell'ora siamo solo spettatori inattivi dentro una bolla molle, e tutt'intorno lo spazio immenso verde e azzurro che ci ingloba.
È facile, dove sono, non pensarti. Mi arrivi alla mente continuamente, mentre qualcosa di quello spettacolo là fuori ha attirato la mia attenzione e già non c'è più, rimane indietro nel viaggio, e tu pure. E sarà così per tutto il viaggio, arriverai su un casolare rosa antico, pezzi di terra ordinati e con la prima peluria di erba del dopo pioggia, sulla fila delle pale eoliche che sembrano mulini, la distesa a perdita d'occhio degli aranci, le colline sfocate in fondo. Ti poserai ogni volta su pezzi di questa grandezza e assieme a questi pezzi ti lascerò indietro.
Non sento colpa in questo.
La bellezza che rimane indietro non perde mica niente di se stessa se io non la guardo più.
È lì.
E tu sei lì.
Sei ovunque, a dir il vero. Persino accanto, sul sedile vuoto dove ho avuto cura di mettere le mie cose. Un bagaglio a mano frettoloso e smunto perché è così che volevo partire senza averti con me, frettolosa e smunta.
Sei anche nell'assenza che solo io so di te, dentro gli occhi della gente seduta che mi studia di nascosto con la curiosità di chi deve condividere la stessa bolla e la stessa direzione senza essersi mai conosciuta, senza averlo concordato, compagni forzati di viaggio, e con un colpo di tosse, la posizione del corpo, il modo di guardare fuori dal finestrino, un accenno di vita, si gioca a fare congetture. Possono pensare tutto di me adesso, immaginare la mia vita, come io faccio con loro, senza per la prima volta avere l'appiglio immediato che mi fa madre all'istante.
Senza di te lo sono ancora per gli altri? Chissà se la maternità si scolpisce da qualche parte nel corpo. Chissà se magari i gesti delle mani che accudiscono lo possono esprimere. Chissà se si vede che su tutto quel verde e azzurro io vedo te. 
Non sento la tua mancanza. Scopro solo adesso, sulla pelle di questo viaggio, che si può provar mancanza solo quando si è mancanti, quando non si è pieni. Anche i sentimenti hanno a che fare con questioni di misura fisica. Anche loro si lasciano incantare dalla catena delle equazioni. 
Io sono piena di te e non posso averne mancanza.
Sento solo una sottilissima quasi insignificante assenza d'attenzione, di un punto di focalizzazione.
Dopotutto il filo con cui cuci le nostre cose di ogni giorno ce l'hai tu.
E adesso le mie sono cose mordicchiate appena e lasciate sul tavolo.
Farò una doccia, leggerò, andrò a dormire.
Per la prima volta lontana da me questa notte, e poi ancora un'altra.
Cercherò altri fili domani.