30.9.15

Se la vita fosse una zuppa di lenticchie

Mi sa che l'essere umano è un po' snob.
S'è mica mai visto un cane seduto concentrato a nettar lenticchie. Questa sì, questa no.
Setacciare è una faccenda tutta umana. Se ci pensate non facciamo altro. E a furia di setacciare, in modo maldestro quanto improvvisato, stiamo facendo dei casini madornali. 
È che se non sono lenticchie la faccenda diventa più complicata.
Le persone, le scelte, i luoghi, le motivazioni, valle a setacciare senza che venga fatta strage di bellezza o al contrario senza che venga elargita salvezza a Barabba, a cazzo insomma. 
Se le cose della nostra vita fossero lenticchie il da farsi sarebbe più lineare ed evidente. Quelle tonde lisce marrone chiaro sì, quelle macchiate, col pallino nero, accartocciate rugose, no. Un solo semplice dito per farlo.
Io invece nella vita c'ho fatto dei gran casini con questo dito. Dovrei seguire un corso accelerato di differenziata esistenziale. Ho buttato cose buone in mezzo a quelle cattive e tenuto cose che m'hanno intossicato.
Per esempio, ho messo via delle scarpe meravigliose in pelle fatte a mano da un artigiano catanese, un paio al mondo, che a guardarle mi si diceva che ero io. Ora ai piedi porto plastica fiorata cinese, numero di serie n alla miliardesima, e mi confondo e non mi riconosco se mi guardo camminare. 
In compenso ho una guru nana di appena sei anni che con addosso gli occhiali in plastica con le pupille finte disegnate mi svela le cose invisibili del mondo, o almeno così mi sembra, e un compagno che ha deciso di invecchiare come Benicio del Toro, o almeno così mi sembra.
È che nonostante questa smania maldestra di setacciare, la vita poi, si sa, è una massaia straordinaria e con gli ingredienti che le recuperiamo a cazzo ci fa miracoli e alla fine vien su lo stesso bene.
Come la zuppa di lenticchie che è pronta in pentola. Pallino nero più, pallino nero meno.


28.9.15

Tutto a destra lento

Hai ragione, ragazzo, sorpassami pure.
Fuori piove, vado lenta e tu invece corri.
Me lo ricordo, prima di tutta questa mia vita rannicchiata adesso sul sedile posteriore, ché di notte la macchina spalma i sogni sull'asfalto; prima di tutta questa mia vita anch'io avevo la tua stessa urgenza.
Quella di fare strada senza scrupoli, come una specie di valchiria urbana venuta per radere al suolo a colpi d'acceleratore tutte le cose attorno che non mi appartenevano.
È un viaggio che non ha fermata, non ha asilo, che cerca l'appartenenza da qualche parte, alla cieca, a tentoni, ma che poi in una manciata di chilometri si brucia tornando al punto di partenza.

Tu avrai il profumo buono addosso, la macchina pulita e ordinata e tutta una vita da ingombrare.
Io puzzo di patatine fritte, i sedili son pieni di peli di cane e tutto quello che ho è qui dentro.
La tua urgenza è una giostra che gira, che non va verso nulla di preciso e per questo corre. Corre pazza perché l'urgenza che hai è una faccenda seria.
Io, invece, ecco, mi metto qui a destra, che ho tanto da ringraziare, che i grazie son troppi, e non vorrei che me ne sfuggisse neanche uno, mi metto a destra e tu mi passi.

Io lo so che per te non c'è ancora nessuna fermata, nessun ristoro, altrimenti ti metteresti dietro e insieme faremmo una fila di grazie.

Io, ragazzo, solo adesso ho capito che cos'è l'amore. Che quando prima di piovere ho il diaframma nervoso e non respiro e ho l'ansia e aspetto l'arrivo catastrofico di qualcosa.
E poi è solo che piove. 
Anche il mio cane fa così.
E allora è da poco che ho capito che l'amore sta anche nel corpo, lo riempie, gli toglie gli orpelli e le penne piumate, scava i solchi per farsi strada, lo rallenta altrimenti gli mancherebbe il respiro, e lo fa tremare prima della pioggia. L'ho capito solo ora che vado lenta.
Tu corri per non sentire la pioggia, quando invece è proprio quel tremore di vita prima che scenda e mentre poi cade quello che stai cercando.
Allora mentre cerchi quella cosa che stai ancora cercando sorpassami pure, ragazzo.
Io mi metto a destra, che tutta la mia vita è rannicchiata sul sedile posteriore, i grazie son tanti e fuori piove.



25.9.15

La mutanda la mattina

Mia madre quand'ero piccola e di mattina mi doveva svegliare, entrava quatta quatta, a passo felpato e credo premeditatamente, in modo che io non potessi prepararmi psicologicamente e spezzare l'effetto sorpresa della sua prossima azione, che era quella di alzare la serranda come se Uno Mattina avesse appena dichiarato lo stato d'emergenza, con una drammaticità da scoppio di Guerra Mondiale, e l'Armageddon qui dentro, quartier generale giusto la mia stanza, giusto una sorta di nuvola sopra la testa o sigillo degli sfigati di prima mattina. Nel frattempo, allo scrosciare violento della serranda, mia madre associava urla impanicate e isteriche, con un'unica uscita mono è tardi, è tardi, è tardi. Se faccio uno sforzo per ricordare, non ne sono sicura, ma la visione è mia madre coi becchi d'oca, le ciabatte peluches di coniglio, la crema casereccia all'uovo gialla sulla faccia e lei che si strappa le vesti è tardi, è tardi, è tardi. Il Bianconiglio con le mestruo è qualcosa che non auguro a nessuno. Mia madre mi dava un bacio all'uovo, io mi alzavo dal letto in preda al terrore, e vomitavo. Poi col tempo l'effetto Armageddon s'è smorzato, la cronicità al ritardo si è fatta rassicurante, e io mi son limitata al solo conato.
Ma negli anni l'è tardi isterico è entrato di diritto all'interno del mio corredo genetico, immutabile e definitivo. Faccio sempre tardi e poiché nei 34 anni di vita si è ormai consolidata l'associazione ritardo-conato, se per il mondo l'ultimo isterico allarme prima di uscire di casa è sul telefonino, il mio è direttamente inserito negli intestini.
Oggi il mio unico scopo nella vita è svegliare Sofia a suon di primavere di Vivaldi.
Non so perché ma alla mia veneranda età non ho trovato niente di meglio dal punto di vista creativo se non quello di adottare la tecnica più bassa ma senz'altro più performante usata dall'intero genere umano quando come obiettivo ha quello di salvare un bambino. La cacca.
Accento piemontese e malinconico, una Magda ovina:
- Buongiorno, Sofia.
- mmpf... 'giorno, chi sei?
- Sono Pecora Miranda e porto la mutanda. 
- Perché porti la mutanda?
- Perché quando rido scorreggio e mi scappa la cacca.
Oggi non abbiamo serrande e mia madre non fa più creme casarecce all'uovo. Ma siamo sempre quelle dell'ultimo minuto e se io affronto ancora e per sempre l'emergenza ritardo con la nausea, per Sofia tra peti, risate e incontinenze non c'è gastrite che tenga.
Stamattina, tra un conato e l'altro, pensavo che a volte è semplice. A volte basta sacrificare una pecora alla mutanda per salvare una figlia.



24.9.15

La fame non ha stelle

Oggi è quel caldo indispettito di Settembre che all'ora di pranzo scalcia ancora un po' per farsi spazio tra i primi freschi. I pescatori sulla strada fanno aria sui banchi e cacciano le mosche usando il piatto della bilancia.
Sono cinque o più messi in fila, uno dietro l'altro, e tutti usano lo stesso ventaglio d'alluminio. Portano ancora gli stivali di gomma nonostante il mezzogiorno e forse non li toglieranno se non per riposare prima della prossima pesca. È che quando son qui a cacciar via le mosche hanno fame di tornar in mare, e poi una volta lì, hanno fame della terra.
Guardandola la riconosco quella fame, o destino delle nostre piccole vite, che scalcia dai primissimi anni di vita e che pur riempiendo la pancia non s'acquieta mai, pur stando lì, ma in una zona che ha il destino di rimanere affamata e di non arrivare mai a far la digestione. 
Per questo rimaniamo radicati a ciò a cui siamo destinati. Perché è raro, anche se talvolta accade, che una focaccia tra i denti la possa sedare.
La mia fame ha dentro le parole, e in questi giorni divoro qualsiasi cosa che le porti addosso. 
Ci sono libri ovunque a casa. Aperti, chiusi col segnalibro che sporge, stropicciati nell'ultima pagina letta, lasciati sui divani, sull'asse da stiro, sul tavolo in cucina, tra un fare e disfare i pranzi e le cene, mischiati a una vita.
È come se le parole mi mancassero e dovessi stare lì ogni volta a scovarle sulla carta. 
Ma ora so che è tutto il contrario. Ho un ingorgo di parole che mi tocca dipanare gentilmente con questa sorta di spazzole, di sentieri già depurati da foglie e sassi. 
Sono ingorghi di buste della spesa che tagliano sulle dita, di concerti notturni, di Sofia e quella bellezza delle cose di scuola che capirà solo quando ne avrà nostalgia, di persone là fuori che ridono sguaiate e camminano di rabbia, calpestando, nonostante a terra rimanga ancora erba fresca, di mio padre che all'improvviso si è fatto vecchio, di rubinetti che si otturano, di domande di ogni giorno, hai preso le chiavi?, dov'è la maglietta?, il cane ha mangiato?, inezie che cuciono una vita a punti stretti.
È così tanta vita, tanto amore mai sentito, così veloce e tutto in una volta, che me ne rimango stupita e muta, seduta come a un tavolino e tutto attorno dentro al bar lo spettacolo dell'andirivieni. 
Ma le parole non sono come le stelle, ordinate e lontane. Loro lì in pancia s'ammassano e danno fame se nel frattempo rimango muta. 
La fame non ha stelle. La fame morde. Ho provato con la focaccia. E per fortuna non basta.