29.6.10

Il vaccino con le corna.













Gossippost.
Per non farla proprio banale banale, mettiamola così: il mio è il tentativo di rendere ancor più normativo, o di dare ancor più fondamento scientifico a quel comportamento umano troppo umano, animalissimo, chiamato poligamia, che è l'atavica attitudine dell'essere umano all'espansione territoriale e colonizzazione attraverso un'attività paragonabile a quella agricola, aratura e semina del maschio, raccolta e gestione del raccolto la femmina.


La giornata inizia col vaccino di Sofia.
E con il crollo delle certezze mio.
Maguardacomesicambia:qualchemesefasareisembrataunamuccapazza
sull'orlodiunacrisidinervieguardaadesso,fredda,gelida,distaccata,efficiente,
senzanessunacrisidinervi,
senzapianterellodrammaturgico.Vaai,grande,hosuperatomestessa.
"Ora si sieda, Signora, e si calmi, faccia training autogeno mentre preparo..."
'azz...

Per riavermi, dal vaccino e dal training autogeno, andiamo a prendere un caffè.
Di fronte a dove siamo seduti c'è una ragazza che aspetta. 
Non ha un benemerito da fare: si vede da come sta molle sulla sedia, da come è omogeneamente spalmata di crema oleosa, da come porta la pedicure bell'e in mostra e da come ha perfettamente orchestrato lì sulla testa le due mollettine  Hello Kitty - che c'avrò trentanni e passa ma la gattina morta fa sempre ever green. E mi rendo conto che non ha un benemerito da fare perché, alle 10 e 30 del mattino sei al bar, non stai lavorando, non stai studiando, non stai pulendo casa, non hai portato tua figlia a fare il vaccino, non sei un pensionato, non appartieni alla categoria varie ed eventuali e soprattutto hai le mollettine di Hello Kitty ben orchestrate in testa, mentre io, per far prima, da un anno porto sempre lo stesso squallidissimo elastico blu elettrico.

Aspetta e guarda in alto, in basso, di lato, per obliquo, dritto e rovescio. Insomma non guarda niente. Fino a che non arriva lui, il suo lui. E adesso guarda, eccome se guarda. Ha l'occhio da pesce lesso, lei, con un tiepido accento di lampo. Quel lampo genere è stato bellissimo stanotte. Ci sta facendo colazione con quello: lo spalma su tutto.
Lui è di spalle, maglietta rosso fuoco. Si sa: su certe faccende, gli uomini sono più discreti.
Le porta qualcosa da mangiare. Sempre di spalle.
"Va bene questo?"
"Si grazie. è stato bellissimo stanotte"
"Vuoi qualcosa da bere?"
"Per il momento no. è stato bellissimo stanotte"
"Vado a prendere il caffè"
"Ok. Sono qua. è stato bellissimo stanotte"
E' cretinamente ridondante.
Oddio, qualcuno l'avrà visto anche su di me il cretinamente ridondante.  Anche a me piaceva metterlo su tutto, l':è stato bellissimo stanotte, prima che Sofia mi trasformasse in Nostra Signora di Clausura.

Porto la maglietta rosso fuoco per dire anch'io che stanotte è stato bellissimo, torna col caffè e si siede. Di fronte a me. Lo vedo.
E' lui. L'amico di mio cugino di una vita. Che ho visto trasformarsi da gufo brufoloso a extrasistole del sesso, da "boh non so" a "vieni, bambina, che con due tre paroline ti rivolto come una cotoletta".
Fa finta di non conoscermi.
Faccio finta di non conoscerlo.
Fai finta di non conoscermi?!
Prendo lo scricciolo e vado da lui.
"ohhhh, non ti avevo riconosciuta"
Mi sa che se l'inizio è così...a voglia di paroline per rivoltarmi come una cotoletta.
Insomma, si insinua subito uno specie di legittimo dubbio che non so spiegare bene da dove arrivi mentre lei è ancora col guizzo da pesce lesso.
E mo' basta!: abemus capito della fumata bianca di stanotte.
Lui è stranamente matador disarcionato: si scaglia su Sofia e incomincia l'Encomio.
Non sto qui a riportare "o che bei piedini, o che belle manine, io piaccio ai bambini, quanto mi piacciono i bambini", quanto piuttosto di come sti poveri bambini si immolino inconsapevolmente alla causa "salvate l'adulto incasinato".
E sto lì a guardarlo il maschio extrasistole disarcionato, e c'è qualcosa che stona.
Perché è così nervoso?
Perché è così nervosamente proteso verso la bimba?
Perché mi sembra che stia sfuggendo da qualcosa, che stia facendo bibidibobidibù pur di non dire altro o perché io non dica altro che bibidibobidibù?
E soprattutto perché mia figlia comincia a sembrarmi una cotoletta?

Prima di vedermela con l'occhio fritto guarnita con fette di limone, saluto e vado.


Ed è fuori, all'ombra dei platani di fronte al bar, che la visione si allarga e punta il bersaglio. E vedo contadini, semine, raccolte e pesci lessi.

Lui è sposato. E ha un figlio.
E non con la sorella occhi di triglia di Hello Kitty. 
Con l'altra. Che è a casa. E l'unica crema oleosa che sta mettendo è quella sul culetto arrossato di suo figlio.





p.s.:per par condicio, non saprei dire a quale legame stia disattendendo occhi di triglia, avendole notato addosso soltanto una parentela felina.

25.6.10

No, no e poi no!

La parola del momento.
No.

"Sofia, vuoi venire in braccio?"
No.
"Allora vuoi restare a terra?"
No.
"Ti vuoi sedere sul seggiolone?"
No.
"Dunque, immagino tu voglia stare sospesa in aria?"
No.

Certo è che questo "no", un gioco al massacro delle intenzioni per il gusto fine a se stesso del massacro, che da luogo a paradossi ontologici, ha ancora bisogno di bilanciamento, piuttosto di una focalizzazione più precisa dell'oggetto a cui è rivolto, ma già è evidente quanto sia impregnato di atteggiamento.
L'atteggiamento di chi per esprimere il suo volere deve passare attraverso il rifiuto.   
L'atteggiamento di chi per affermare se stesso deve negare tutto il resto.

"Sofia, hai voglia di dire sì a qualcosa?"
No.
"Allora hai proprio voglia di dire no a tutto?"
No.

Che Aristotele e il suo compare il signor Terzo Escluso mi aiutino!

22.6.10

Amabile clown.

Li guardo, quello scricciolo bellissimo che fa tremare il labbro a comando mentre ti guarda angosciata come se fosse l'ultima volta che si starà assieme, e il Riccio, l'uomo dalla voce del vento, che ha cantato tutto quello che aveva da raccontarmi seduto sul velluto delle corde basse, che suona il basso e canta il vento, suona il basso e muove ogni gesto secondo un preciso ritmo, suona il basso e parla dando alle cose la grazia del suo sussurrarle.
Li guardo, tutt'e due affaccendati, lo scricciolo a disperarsi, il Riccio a spegnere la sua disperazione. Con ogni mezzo, tutt'e due. Lei, una girandola di crescendo di lacrime, occhi pesti e stropicciati, smorfie di dolore e "...amo'e..." su di me, lui, tentativi poco convincenti di stemperamento della crisi con canzoncine sciocche, balletti del corpo nervosi, smorfie ridicole, a tratti efficaci, su di lei.
Li guardo, mentre sono a un palmo dalle loro fatiche, e penso a quanto sia miracoloso e devastante ad un tempo l'entrata in scena di un lattante sulla personalità di un adulto. L'inconsapevolezza del suo vivere riesce a scardinare il più collaudato, non tanto per valore quanto per durata di tempo, tra gli abiti di un uomo, nonostante il lungo lavorìo del taglia e cuci. 

Lo vedo, sul Riccio, quel piccolo dolore, che appartiene tutto all'essere genitore, di quando si prova a far qualcosa ed è un buco nell'acqua, quell'andare all'infuori di se stesso per uno scricciolo ululante, quel calarsi al di sotto del suo far musica su ogni cosa, nuotare in acque che non gli appartengono e risalire a galla con ancora addosso i vestiti da clown.

Lo scricciolo, in braccio a me, già ride.
Il Riccio torna a suonare le sue corde basse. Ancora tutto bagnato.
   


19.6.10

L'eresia del crack.

Sono stata eretica per tutto il tempo, prima di questo. Mi dava aria percorrere le vie traverse, con addosso le scarpette rosse. Ballavo sempre, anche sotto i temporali, controvento. Taranta-taranta-taranta. Facevo paura senza che io ne avessi mai. Oppure era il sottobosco che raccontavo a fare paura, lì dove c'era ombra fitta, non un sentiero in luce, una rotta definita, un rifugio alla fine delle vie. Portavo l'ombra, lo splendore della mancanza di forma. Portavo le possibilità, rispondendo come fa l'oracolo. Lasciavo che i rimandi evocassero le risposte. Perciò non ne davo, evocavo.

Portavo unghia sporche di terra e la matita nera attorno agli occhi. Lì nel sottobosco.

Adesso svolgo i bei compitini.
Sono prodotto pubblicitario venduto. Non canto l'ombra ma i jingle. Vivo nella casetta di marzapane con addosso le pantofole, seduta su una sedia, le mani inamidate.

A lungo mi hanno inculcato che a portare i capelli sul volto fosse sconveniente, dicesse male.
Allora chignon, trecce, code, i capelli stirati, tirati, strappati, costretti perché non coprissero, non facessero paura coprendo l'insondabile.
Ora so che l'esposizione del manifesto in superficie ha dell'insano, a volte, e che il respondere sta dietro la parola, il fatto, l'atto.
Non si vede, seduta dove sono, ma sto facendo ricrescere i capelli fin sotto il fondo della schiena: a partire dal corpo cerco il sottobosco, senza vie traverse non so dove andare.
Faccio crack del sistema che mi ha inghiottito perché la vendita al dettaglio della marionetta che sono venga sospesa.
Ho ricominciato a parlare sottovoce sentendo da lontano l'ombra e la taranta rullare impazienti, avvicinarsi.
Voglio ballarle di nuovo, adesso che c'è mia figlia.


Janis Joplin - My baby

15.6.10

Bocche di cane e l'angelo.

Abbiamo rischiato seriamente, Sofia, non è vero?
Tu, le cose che fanno, di te, te.
Io, di non poter proteggere le cose che fanno, di te, te.


Domenica calda, quella passata. Di quel caldo che s'appiccica pure sulla percezione ragionevole delle cose. Quel tipo di caldo che rende visione ogni forma, miraggio qualsiasi stimolo all'attività.
Si passa dallo stato di veglia a quello di sonno senza stacchi o cambi di rotta. Tutto galleggia di mollezza, anche l'asfalto nero sfuma la sua durezza in quest'occasione.
Sopravvivono storie tropicali di Messico e di siesta, narrate piano, perché anche i suoni stanno. Dondolando sospesi dentro la bolla calda.

Noi abbiamo portato il dondolìo fino alla fine del tramonto. Poi da lì, fuori a cercar ristoro.

Ne avrei dovuto sentire l'arrivo, nascosto dietro un paio di intenzioni buttate giù con leggerezza.
Una, venuta al passo con i primi metri di strada fatti, una camminata lenta la mia, Sofia seduta a raccontarsi qualcosa; l'intenzione di voler essere io e lei, sole, insieme, verso una storia da fare, da riempire con il solo fatto di esserci, e magari nient'altro.
Ne avrei dovuto sentire l'arrivo.
L'altra, alla vista di fiori sul ciglio della strada che stavamo percorrendo, fiori anonimi ma abbastanza gradevoli da dirmi che nonostante fosse uno scenario visto e rivisto per Sofia, magari quella delicatezza, sbocciata improvvisa dove prima non c'era, magari sarebbe potuta bastare, magari avrebbe potuto soddisfare la sua sete, quel suo stare sempre alla ricerca di nuovi contenuti.

Ed eccolo l'arrivo.

Alla nostra destra un viottolo secco, non ha nulla di offensivo, sonnecchia paziente sotto questa calma domenicale, ma io, diversamente dalle altre volte, gli poso lo sguardo qualche secondo di più; e da dietro una sua curva si precipitano i due cani. Non hanno nemmeno la decenza di iniziare lenti. Arrivano sicuri, preparati, sguainando i loro denti. Ho solo il tempo di andare dall'altro lato della strada. Ho solo il tempo di pensare di dover rimanere ferma, di non muovermi. Mia figlia è in pericolo, e non posso star altro che al muro, come affidando la decisione ad altri su quello che dovrà avvenire, su quello che sarà di mia figlia.
Urlare, sì, però. Quello, sì che mi è concesso.
E’ un urlo paradossale, anche le mie orecchie lo sentono. C’è paura, la follia dell’essere braccati, e la ferocia di una madre. E’ l’unico strumento che ho, l’urlare, per difendermi. Non ho altro. Sono paralizzata e urlo ossessa contro quello che non doveva stare lì, quell’improvvisa vergogna della ragione che ha fatto aggressori e aggrediti, tutti identica carne da combattimento.
Siamo a qualche metro da casa nostra, il posto delle cose quotidiane, e abbiamo le spalle al muro qui all’inferno.
I cani hanno il muso a un passo da Sofia, con la bocca velenosa di rabbia, dicendo che qualcosa accadrà, vogliono che accada.
Siamo pietrificati, io e Sofia da un lato, i cani dall’altro: sappiamo tutti, da qualche parte della nostra coscienza, che un passo falso provocherà quello che sta covando, quello che è in latenza, quello che è impronunciabile. Sono le urla, anche quelle di Sofia, ad aggrovigliarsi, s’arrotolano, lottano, nessuna cede. Ma sta per accadere, comincio a sentirlo, perché loro non vanno, perché sono disperata adesso e perché qui siamo all’inferno.

Da un punto sfocato del delirio, lo vedo arrivare. L’angelo.
E’ stato in disparte per tutto il tempo. E’ stato in attesa a guardare. Non capisco perché. Però finalmente è arrivato.
Lui evidentemente agisce così, compare improvviso e scompare per poi ricomparire, perché così è stato dal primo momento che lo abbiamo incontrato. Qualche passo prima, qualche minuto prima.

Uscendo dalla strada privata, mi sono guardata a sinistra e a destra, non c’è niente: strada a sinistra, strada a destra. Non c’è niente, non c’è nessuno. Solo io e Sofia, e un pomeriggio nudo, silenzioso.
Decido di andare a destra. Qualche metro e sento alle mie spalle qualcuno. Mi giro, un’occhiata veloce, per discrezione. E’ apparso, un uomo. E’ anziano. Sembra non stare andando da nessuna parte. Questo mi mette in allarme, l’assenza di un oggetto di riferimento. Mi rigiro sulla strada, scompare, e faccio uno di quei pensieri meschini legati all’istinto di sopravvivenza: non vorrei fossimo noi il suo oggetto di riferimento. Qualche metro ancora, ed eccolo di nuovo, l’uomo, ci passa accanto, ci guardiamo appena e penso subito che avrei dovuto accennare ad un saluto. Ha un viso marcato di rughe ma l’espressione che porta è lieta, serena, e sa dove sta andando. Ci passa avanti in un attimo, e la camminata che sfoggia è leggera e vibrante come quella di un ragazzino. L’uomo è vecchio e giovane allo stesso tempo: non ho più timore di lui. E scompare. Lui avanti, io a guardare i fiori anonimi.
Inizia il delirio. Siamo sole, io e Sofia, contro le bocche mostruose dei cani. Per un tempo che non si può scandire. E’ un blocco di urla e di bocche. Siamo sole e io non so che fare, non so che fare, non so che fare.
Eccolo di nuovo l’uomo, l’angelo. Porta inspiegabilmente, qui all’inferno, quel suo volto lieto, fa qualcosa, forse butta pietre, sempre con leggerezza. I cani vanno. Finisce tutto. Un’automobile arriva, partecipa agli ultimi istanti della mia disperazione, è da questa che si accorge che qualcosa è successo. Ci scorta fino a casa. Ringrazio l’uomo, che stavolta aspetta che lo ringrazi. Sorride lieto e leggero. Scompare.
Finisce tutto.


Mentre dormi ti bacio tutta. Stavolta non sgattaiolo dal letto quatta per non svegliarti. Ti tocco e ti bacio tutta. 
Tutte le cose che fanno, di te, te.

12.6.10

Le brioches e la collezione di Sua Maestà.

Mondo povero.
Non è reale la storia che se metti del cibo di fronte ad un bambino affamato lui si ingozza.
L'immagine di noi del mondo avanti, capelli al vento, bianche vesti di lino e sandali sulla polvere, con l'andatura piena di chi annuncia salvezza e cambierà il mondo, portando cibarie di ogni specie, forma, colore, profumo e il bambino giù lì per ore fino a quando, sazio come non ricorda d'esser stato mai, leva gli occhi dal banchetto pieno di gratitudine, è solo il più comune dei film.
La verità è che il bambino starebbe di fronte a quel ben di Dio come un cieco di fronte ad un tramonto mozzafiato.
Non ha fame. E' talmente profonda la fame, metabolizzata fin nei più reconditi processi del suo stato, da non averne. 
Il suo è un forzato stato d'anoressia.