Tu, le cose che fanno, di te, te.
Io, di non poter proteggere le cose che fanno, di te, te.
Domenica calda, quella passata. Di quel caldo che s'appiccica pure sulla percezione ragionevole delle cose. Quel tipo di caldo che rende visione ogni forma, miraggio qualsiasi stimolo all'attività.
Si passa dallo stato di veglia a quello di sonno senza stacchi o cambi di rotta. Tutto galleggia di mollezza, anche l'asfalto nero sfuma la sua durezza in quest'occasione.
Sopravvivono storie tropicali di Messico e di siesta, narrate piano, perché anche i suoni stanno. Dondolando sospesi dentro la bolla calda.
Noi abbiamo portato il dondolìo fino alla fine del tramonto. Poi da lì, fuori a cercar ristoro.
Ne avrei dovuto sentire l'arrivo, nascosto dietro un paio di intenzioni buttate giù con leggerezza.
Una, venuta al passo con i primi metri di strada fatti, una camminata lenta la mia, Sofia seduta a raccontarsi qualcosa; l'intenzione di voler essere io e lei, sole, insieme, verso una storia da fare, da riempire con il solo fatto di esserci, e magari nient'altro.
Ne avrei dovuto sentire l'arrivo.
L'altra, alla vista di fiori sul ciglio della strada che stavamo percorrendo, fiori anonimi ma abbastanza gradevoli da dirmi che nonostante fosse uno scenario visto e rivisto per Sofia, magari quella delicatezza, sbocciata improvvisa dove prima non c'era, magari sarebbe potuta bastare, magari avrebbe potuto soddisfare la sua sete, quel suo stare sempre alla ricerca di nuovi contenuti.
Ed eccolo l'arrivo.
Alla nostra destra un viottolo secco, non ha nulla di offensivo, sonnecchia paziente sotto questa calma domenicale, ma io, diversamente dalle altre volte, gli poso lo sguardo qualche secondo di più; e da dietro una sua curva si precipitano i due cani. Non hanno nemmeno la decenza di iniziare lenti. Arrivano sicuri, preparati, sguainando i loro denti. Ho solo il tempo di andare dall'altro lato della strada. Ho solo il tempo di pensare di dover rimanere ferma, di non muovermi. Mia figlia è in pericolo, e non posso star altro che al muro, come affidando la decisione ad altri su quello che dovrà avvenire, su quello che sarà di mia figlia.
Urlare, sì, però. Quello, sì che mi è concesso.
E’ un urlo paradossale, anche le mie orecchie lo sentono. C’è paura, la follia dell’essere braccati, e la ferocia di una madre. E’ l’unico strumento che ho, l’urlare, per difendermi. Non ho altro. Sono paralizzata e urlo ossessa contro quello che non doveva stare lì, quell’improvvisa vergogna della ragione che ha fatto aggressori e aggrediti, tutti identica carne da combattimento.
Siamo a qualche metro da casa nostra, il posto delle cose quotidiane, e abbiamo le spalle al muro qui all’inferno.
I cani hanno il muso a un passo da Sofia, con la bocca velenosa di rabbia, dicendo che qualcosa accadrà, vogliono che accada.
Siamo pietrificati, io e Sofia da un lato, i cani dall’altro: sappiamo tutti, da qualche parte della nostra coscienza, che un passo falso provocherà quello che sta covando, quello che è in latenza, quello che è impronunciabile. Sono le urla, anche quelle di Sofia, ad aggrovigliarsi, s’arrotolano, lottano, nessuna cede. Ma sta per accadere, comincio a sentirlo, perché loro non vanno, perché sono disperata adesso e perché qui siamo all’inferno.
Da un punto sfocato del delirio, lo vedo arrivare. L’angelo.
E’ stato in disparte per tutto il tempo. E’ stato in attesa a guardare. Non capisco perché. Però finalmente è arrivato.
Lui evidentemente agisce così, compare improvviso e scompare per poi ricomparire, perché così è stato dal primo momento che lo abbiamo incontrato. Qualche passo prima, qualche minuto prima.
Uscendo dalla strada privata, mi sono guardata a sinistra e a destra, non c’è niente: strada a sinistra, strada a destra. Non c’è niente, non c’è nessuno. Solo io e Sofia, e un pomeriggio nudo, silenzioso.
Decido di andare a destra. Qualche metro e sento alle mie spalle qualcuno. Mi giro, un’occhiata veloce, per discrezione. E’ apparso, un uomo. E’ anziano. Sembra non stare andando da nessuna parte. Questo mi mette in allarme, l’assenza di un oggetto di riferimento. Mi rigiro sulla strada, scompare, e faccio uno di quei pensieri meschini legati all’istinto di sopravvivenza: non vorrei fossimo noi il suo oggetto di riferimento. Qualche metro ancora, ed eccolo di nuovo, l’uomo, ci passa accanto, ci guardiamo appena e penso subito che avrei dovuto accennare ad un saluto. Ha un viso marcato di rughe ma l’espressione che porta è lieta, serena, e sa dove sta andando. Ci passa avanti in un attimo, e la camminata che sfoggia è leggera e vibrante come quella di un ragazzino. L’uomo è vecchio e giovane allo stesso tempo: non ho più timore di lui. E scompare. Lui avanti, io a guardare i fiori anonimi.
Inizia il delirio. Siamo sole, io e Sofia, contro le bocche mostruose dei cani. Per un tempo che non si può scandire. E’ un blocco di urla e di bocche. Siamo sole e io non so che fare, non so che fare, non so che fare.
Eccolo di nuovo l’uomo, l’angelo. Porta inspiegabilmente, qui all’inferno, quel suo volto lieto, fa qualcosa, forse butta pietre, sempre con leggerezza. I cani vanno. Finisce tutto. Un’automobile arriva, partecipa agli ultimi istanti della mia disperazione, è da questa che si accorge che qualcosa è successo. Ci scorta fino a casa. Ringrazio l’uomo, che stavolta aspetta che lo ringrazi. Sorride lieto e leggero. Scompare.
Finisce tutto.
Mentre dormi ti bacio tutta. Stavolta non sgattaiolo dal letto quatta per non svegliarti. Ti tocco e ti bacio tutta.
Tutte le cose che fanno, di te, te.
santa miseria che paura.
RispondiEliminaOggi, che è passato un po' di tempo, rimane un episodio unico (e spero irripetibile) che ha spezzato la monotonia quotidiana.
RispondiEliminaSarebbe simpatico vivere altre cento storie di questa portata anti-tram tram quotidiano. Certo è che se il prezzo da pagare è il danno fisico (o quello psicologico!)....meglio "cento da pecora".
Santa miseria che paura, sì!