27.4.10

Pesca buona nella Rete. Palcoscenico e Libero arbitrio.

Da dove potrei iniziare?
Proprio io, che ho scoperto Msn solo un paio d'anni fa, che so di Facebook per detto e non per fatto, che leggo le e-mail una volta al mese, Twitter rimane ancora solo un'icona muta su molti blog e non sono del tutto convinta di aver compreso bene il meccanismo RSS.
Proprio io, che immaginavo internet luogo di perdizione del tempo, un'osteria dove i beoni iniziano la mattina a trincare vino e per tutto il giorno, seduti nei loro affari liquidi, cercano di smaltire la lucidità sonnecchiando. O tutt'al più la pensavo come una trattoria di quint'ordine dove, se ti va bene, la pasta cotta, ricotta e scotta ti viene servita intiepidita dal microonde.
Insomma, un modo per maneggiare male il tempo, servito nel detto e ridetto dozzinale e generalista.

Proprio io, dicevo, qui ed ora, seduta di fronte ad internet, nel mio blog, a parlar di internet, inizio dal blog che curo. Appunto.

Ho trascorso 10 anni della mia vita in completa assenza di parole. Scritte. Non so per quale motivo. Sono stata sportiva in ritiro forzato, musicista a prestazione di cover, chef nella mensa operaia: tratteggiavo schizzi evanescenti su pezzi di carta scovati alla buona che regolarmente si smarrivano sui fondi delle borse, dei cassetti della scrivania, della macchina, della spazzatura. Direi quasi metodicamente abbandonati alla casualità del caos, stavano ovunque tranne dove sarebbero dovuti realmente stare: in una raccolta organizzata di ciò che mi rappresentava. E' così che ho perso, irrimediabilmente, fotografie di ciò che ero e che vivevo, slanci a volte anche appassionati di idee che in divenire sarebbero potuti essere progetti concreti. Perché se non si tiene, non si raccoglie, non si custodisce, non si fissa, ogni cosa è destinata a perdersi.
Marcela Serrano ne "Il tempo di Blanca" conclude con una sequenza di parole farneticanti, alla rinfusa, perdute nella testa dell'eroina colpita da afasia.
Di afasia in un certo senso si è ammalato il mio scrivere.
Di afasia sta guarendo grazie al blog.
Che è terreno privato e terreno pubblico. Stanza intima e luogo di confronto. Incontro con sé e incontro con gli altri.

Soltanto qualche mese fa, avrei pensato con tutta la forza delle mie convinzioni che scrivere di sé su internet fosse una forma sofisticata di esibizionismo, che desse nutrimento al voyeurismo imperante di questi tempi moderni, fatti a volte di vuoti di fame da colmare con la vista. Che questi scritti fossero per lo più marionette di cartapesta manovrate su un palcoscenico da riempire per il piacere di sguardi indiscreti. Che sotto la pressione di anonimi spettatori le parole e le esperienze intime non potessero sgorgare libere, manipolate dalle possibili reazioni degli osservatori piuttosto che dalla spontaneità e dalla spinta creativa degli autori.
Così come opera la pubblicità di un prodotto sui fruitori. Pubblicità vanesia di se stessi.
Ma di fronte all'esperienza anche le convinzioni più dure si ammorbidiscono.

Penso ancora ad una certa forma di esibizionismo/voyeurismo, ma nel modo più moderato e sociale del concetto, nel senso di "se tu mi guardi testimoni la mia presenza" e insieme "se io ti guardo, ti comprendo e mi comprendo". Insomma, comunicazione e confronto.
Internet è anche questo.
Ai social network preferisco ancora  il social dinner party a casa mia, ché se ho voglia di quattro chiacchiere pretendo occhi, "Peermeesso?" "Entraate", articolazioni delle mani, padelle e un piatto di carbonara.
E ritengo che non sempre le informazioni cercate siano coerenti con la esaustività degli argomenti. Ma è anche vero che un paio di 30 e lode li ho guadagnati studiando su internet, cercando e trovando.

Perché internet è la rete del pescatore, colma di gamberoni rossi e qualche vecchio scarpone.

Ci sono rivoluzioni in atto su internet: la liberazione da vecchi dogmi da parte di popolazioni in evoluzione; c'è, una per tutti, Yoani Sànchez che, sotto il peso di un regime autoritario che tiene sotto scacco la velocità di acquisizione del sapere attraverso connessioni internet a 56k, si batte per la liberalizzazione di internet come strumento di trasmissione e diffusione della cultura; sotto l'inibizione del dibattito politico voluta alle regionali di qualche settimana fa, c'è stato l'approdo in rete di un qualcosa di organizzato (difficile da definire visto la novità dell'evento) che protestando ha eluso il mutismo forzato delle televisioni a 56k. E poi c'è la costante denuncia alle aberrazioni disumane di ogni genere, ci sono pagine di grande poesia, di grande impatto emotivo, e manuali d'istruzioni per ogni disegno o progetto che si abbia voglia di realizzare, testimonianze, indicazioni, spunti, miliardi di punti di vista, in su, in giù, per ogni punto dello spazio di cui si può avere un'opinione, e scontri, ammissioni di colpa, discolpa, e gamberoni rossi.
E vecchi scarponi, certo.
E' così che anche su internet si affaccia l'esercizio del libero arbitrio.
Ogni istante siamo chiamati ad assumere dalla vita sostanze di qualsiasi genere, che ci cambiano, ci plasmano, entrano nel dna della nostra coscienza e ci fanno nuovi, o vecchi, ma mai uguali. Siamo quello che viviamo, che decidiamo di vivere. E il libero arbitrio è questa scelta, la direzione determinante che ci muove verso l'oggetto, la sostanza che vogliamo dia forma alla persona che vorremmo essere. E una volta esercitato il libero arbitrio, entra in gioco la coscienza critica, il separare la pula dal grano, o viceversa, la plastica dall'alimento, o viceversa, il bene dal male, o viceversa, i gamberoni rossi dai vecchi scarponi, o viceversa.
Si fa in strada, in ufficio, a scuola, a casa, al bar, in noi, con gli altri, ovunque e sempre.
E se internet mi pare sia la letteratura di questa vita, si fa anche qui. Si deve fare anche qui.

Nonostante pensi ad internet come ad una potenzialità ancora acerba, un Mozart in maturazione, è per questi motivi, e per qualcos'altro, che ho sottoscritto la mia adesione al progetto "Internet for peace".

Naturalmente su:
www.internetforpeace.org       

19.4.10

Cinguettii fuori onda.

Non c'è niente da fare.
Per quanto io mi ribelli, resto e resterò sempre figlia di teledipendenti.
Per quanto io mi ribelli, resto e resterò sempre teledipendente.
Per quanto io mi ribelli, Sofia resta e resterà sempre figlia di teledipendenti.
In quanto io mi ribello, mia figlia non sarà teledipendente.
Non parlo di visioni del contenuto, ché i miei hanno già visto tutto, io non ho la minima intenzione di vedere tutto, Sofia è troppo piccola per vedere ancora.
Mi riferisco piuttosto a quel gesto incontrollato, senza alcuna finalità se non di essere fine a se stesso, primo su tutti gli altri gesti della giornata, secondo solo allo sbadiglio, di, in ordine di apparizione, dispiegare, allungare, tendere, infine puntare il dito di una mano ancora insonnolita e....clik. Accesa. 
E poi niente, basta, dimenticata sotto il rollìo delle occupazioni quotidiane. Semmai un'occhiata sfuggente, niente di più.
La dipendenza è uditiva. Il mormorio delle cose vuote sul suono straripante della propria coscienza e del mondo reale. Perché?
Cosa succede se decido di spegnerla? Vediamo...:

  1. potrei impazzire sotto la morsa dei pensieri che tornano a parlare (motivo in vetta alle statistiche per cui si accende la televisione)
  2. oppure i pensieri decidono di rimanere muti ed io impazzisco per questo
  3. dato che la televisione è diventata colonna portante delle case, potrei rimanere soffocata sotto le macerie del tetto che viene giù
  4. il tamburo dell'orecchio, di fronte all'astenia da lavoro, potrebbe andare in tilt ed io comincerei a camminare per casa come in preda ai fumi dell'alcool
Malgrado le funeree previsioni, decido di spegnerla. Un colpo secco, nervoso, in lotta con la dipendenza, tanto per non cambiare idea. Clik. E adesso che succede?

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7:05
Succede che ascolto e riesco a distinguere ben quattro tipi diversi di cinguettii, più il tubare delle colombe (dato straordinario visto lo sviluppo inversamente proporzionale tra cemento civilizzato e specie animali).                

7:30
Succede che sento il turbinio delle macchine, che tanto spesso mi ha cullata nelle notti insonni e nelle albe in solitaria, avviarsi neanche troppo nervosamente alla giornata.

Ancora cinguettii.

8:15
Succede che lo scorrere dell'acqua dal rubinetto riempia morbidamente lo spazio tra me e Sofia.

10:35
Succede che Sofia si addormenti, fatto strano ormai, con soltanto la voce degli uccelli e il mio respiro.

Tubare e cinguettio adesso.


11:00
Succede che le voci fiammanti di leggerezza dei bambini a scuola nell'ora di ricreazione invada improvvisamente tutta la casa.

11:10
Succede che i miei pensieri non si presentino con forza, ma dolci come i cinguettii.

12:30
Succede che, mentre le do la pappa, Sofia non guardi la televisione, ma i miei occhi, e rida, e rido, e rida, e rido, e alzi il vestito per nascondersi e "Non c'èèèèè, Sofia non c'èè!". Lo abbassa "Ahhh, c'è!" e chiede la pappa.

13:10
Succede che Sofia senta, mentre mi guarda mangiare, che a volte il silenzio può legare e riempire più di mille filastrocche.

14:50
Ho lasciato la finestra aperta. Sento lievi fruscii di là in cucina. E' il gatto di M.

Sempre i cinguettii.

16:00
Le parole improvvisate di Sofia commuovono tutto, qui in casa.

17:00
Succede che arrivi Lè, che inspiegabilmente Sofia voglia stare con lui (parole, canzoncine, risate, a intervalli regolari "ciao", a intervalli regolarissimi "mamma"), e che escano fuori a raccogliere i fiori. Succede che mi godo la casa silenziosa e solitaria.

17:03
Succede che senta provenire da fuori le urla di Sofia.

18:00
Arriva la nonna...(parole, canzoncine, risate, a intervalli regolari "ciao", a intervalli regolarissimi "mamma")...la voce di mia madre, la voce di mia figlia...

... : ...
Succede ancora e ancora e ancora altro.

Insomma...se non ho potuto affacciarmi fuori a guardar la vita muoversi, oggi tutti i suoi suoni sono entrati qui in casa mia. Non c'è mormorio oggi. C'è musica.
Mi chiedo cosa possa succedere se più tardi, a cena io e Lè., tenga la televisione spenta.
Vedremo.

Intanto a quest'ora il cinguettio comincia ad affievolirsi. Non è vero?

  

16.4.10

300 giorni. Discorso ecologico.

C'è un sistema.
Esiste, si muove, cammina, si sviluppa, funziona.
Da qualche parte mostrerà certi punti deboli, ma nel complesso del suo esser complesso, tutto sommato funziona; nonostante un'incostanza nella fluidità del meccanismo, le mancanze e le ripartenze trovano una loro ciclicità. Il sistema è coerente. 
E' in equilibrio.
Arriva l'estraneo, un sistema a cui quel sistema non può essere adeguato né essere riferito perché nessun carattere costituente i due sistemi porta coincidenza, nemmeno somiglianza. Sono ontologicamente in antitesi ed è escluso il tu, il mutuo procedere in direzione l'uno dell'altro. Semmai la loro è una reciprocità oppositiva.
Ontologicamente in antitesi non tanto nel coesistere all'interno di uno stesso spazio, che anzi è l'unica forma in grado di assorbire le antitesi e accordare i sistemi (è quello lo spazio, l'unico, in cui entrambi i sistemi possono attuare la loro inconciliabile specificità), quanto nel condividerlo.
Così un corpo piranha tra i delfini, il sale nell'acqua dolce, un virus nella cellula animale, l'eresia sull'ortodossia, moti rivoluzionari sull'autorità della tradizione, la  pretesa tutta moderna della perpetua emissione di luce sui ritmi ancestrali sonno-veglia, il moto terrorista nell'ordine assorto del quotidiano, lo spermatozoo nella cellula uovo, [...]. Sistema individuale contro sistema individuale.
E nel movimento che ogni sistema del vivente compie, come stato di necessità, perché l'equilibrio specifico permanga, è possibile che:
  1. Il sistema ospite annienti il sistema occupante
  2. Il sistema occupante annienti il sistema ospite
  3. I due sistemi si annullino reciprocamente
  4. I due sistemi creino interdipendenza e fondano, in forma di simbiosi, le proprie originali peculiarità dando corpo ad un sistema inedito
  5. I due sistemi conservino la propria integrità e, addomesticandosi*, convivano       

[...] Così Sofia nella mia vita.

Sono madre, il sistema più controverso perché di specie umana. 
Sistema controverso perché vivo, alcune volte anche fortemente, l'antitesi, lo stato di guerra, non verso mia figlia, da me al di fuori di me. Piuttosto la guerra è intestina: da me in me.
La mia specificità mi dice di nutrire quella di mia figlia. E' l'imperativo della legge di natura. Contravvenendo a tale legge sarei condannata all'infelicità, che tra le tante cose è la cronica discrepanza fra ciò che si è e le opere che si ha potere, o non si ha, di realizzare. Sono madre, e con mia figlia opero e realizzo ciò che sono.
Nei sottintesi dell'essere animale io e Sofia ci muoviamo benissimo. Danziamo ritmicamente all'unisono secondo il tempo che un orologio invisibile scandisce, e non sbagliamo mai i passi. Io nutrice, lei nutrita, cresciamo. Ballando a tempo cresciamo.
Eppure, ed ecco l'antitesi, c'è un'altra me che porta una sua propria specificità e, non potendo più soddisfarla nel tempo che turbina interamente intorno a Sofia, scalpita, scalcia, urla, si dimena come una demone imbrigliata.
Ripenso ad una leggenda ambientata in un piccolo paese dell'entroterra ennese. Non conservo molti ricordi della mia infanzia, ma tutte le volte che, percorrendo la strada di ritorno a casa dal paese in cui sono nata, mi ritrovo sotto il dirupo dove si affaccia pericolosamente il paese di Agira, mi sento spinta da quella stessa impressione di bambina di fronte alle storie nere a guardare in alto e vedere il nero.
Si racconta che San Filippo Neri imbrigliò per i capelli diversi demoni e incatenandoli nei sotterranei dell'Abbazia li condannò per l'eternità alla prigionia. I demoni cercarono di scendere a patti col Santo e tra pianti, lamenti, promesse e contorsioni riuscirono a convincerlo. Il Santo così promise:"Quando la Pasqua cadrà a Maggio, sarete liberi". Ancora oggi, tutte le volte che la Pasqua cade gli ultimi giorni di Aprile, si sentono gli zoccoli scalpitare.

300 giorni circa. Tempo morbido con Sofia, e tempo duro. Mi innalzo con Sofia, e annaspo. Sono mamma con Sofia, e scalpito. La amo, e vorrei andare.
Scrive Simone de Beauvoir ne 'Il secondo sesso': "[...]la vita permane, a condizione di superarsi; si supera, a condizione di permanere [...]". E' innegabile quanto abbia superato me stessa diventando madre. Ho trasceso alcuni dei miei limiti, altrimenti insuperabili. Sento, però, quanto sia indispensabile tornare a percorrere la terra del sistema precedente Sofia, e dissotterrare ciò che è rimasto irrisolto. Il paradosso, l'antitesi dentro di me, è proprio il fatto che nel superamento di me stessa attraverso l'esser diventata madre, specificità inconfutabile, l'altra specificità ne è rimasta strozzata, e nel soffocamento di questa, il superamento non può permanere.
Se i primi tre punti dell'elenco qui sopra non riguardano noi, il quarto è quello che stiamo vivendo e fa guerra dentro di me tra profonda, nuova felicità e asfissia, il quinto punto è quello che farà la differenza, l'incastro dei sistemi, la morbidezza dell'equilibrio. Verrà l'addomesticamento*, sarò sempre in conflitto, quello d'esser per lei o di essere per me, ma avrò tempo per risolverlo, e avere tempo significherà far convivere tre sistemi: il mio con quello di Sofia, e il mio con quell'altro mio, con quell'altra me.
Verrà Maggio. Scalpito.



*per esprimere il concetto esiste solo la parola di Saint-Exupéry.


11.4.10

L'indice delle cose.

"Vuoi accendere il lampadario? Premi forte: accendi...accesooo! Spegni...spentooo, braaava!"
"Dove sono gli occhi, Sofia? ... Sìììì"
"Capelli, sì, orecchie, uno e due, naso, occhio, sì, ahi Sò!, occhio"
"Piedi della mamma, piedi di Sofia"
"Bottone. Ma dov'è la mucca? Sì, bottone ... ma la mucca dov'è, Sofia? Beello il bottone, e la pecorella? Boottone, ok, contiamo i bottoni: uno, due, tre ..."
"No le scarpe, Sofia"
"No la pappa, Sofia"
"No la cacca, Sofia"
"Le senti? Le asperità del quadro del nonno"
"Stupeeenda la trama del cuscino"
"Pancia, ombelico, piaano, sì ombelico, piano Sofia!, ahi!, non entra tutto nell'ombelico"
"E gli uccelli, pio pio? E il gatto, miaaao? E la strega cattiva? No, quello è il cavaliere; la strega cattiva dov'è? No, è il cane"
"Quanti anni ha, Sofia? Uuunooo, braaavaaa" 
"Lè, abbiamo un'ora per il .... Uuunooo, braaavaaa"
"Vuoi citofonare tu? Sì, basta Sò, una sola volta, sì uno ... baasta ..."
"Mamma! (ma perché non ha suonato stò telefonino?!?) ... Sei lì da cinque minuti? No, mamma, non ha tossito ... No, non è troppo alta: è il suo cartone preferito ... Sì, sto facendo ancora i piatti ... Mamma!!!, ma mi hai telefonato per ... No, mamma, hai telefonato tu: io non ho [...]"
"Ah!, Ctrl fa anche questo? (ma guarda che una bambina di 10 mesi ...)"
"Lè, Sofia ha scoperto una nuova funzione della fotocamera. Puoi vedere come ..."
"Nel nasiino"


Ode all'indice, Sofia. Il ponte tra il tuo bianco e le voci del mondo.



7.4.10

"Parivavu di chiddi pi ddaveru". Elogio?

Che letteralmente si traduce in: "Sembravate di quelli per davvero" e che vuol significare, nella forma retorica della metonimia, espressa qui in modo straordinariamente efficace: "Complimenti! Siete stati così bravi e convincenti da sembrare dei veri professionisti". Lontano da disquisizioni puramente linguistiche, fu la 'zia Pippina' (che, tanto per rimaner fedele a quest'approssimativa analisi semantica del dialetto siciliano, si pronuncia: 'a zzzia P-pp-na', laddove le zeta di 'zzzia', più ne metti meglio è, abbondanti come i pasti luculliani, vengono emesse con la stessa intensità ed asprezza delle zeta di quel rafforzativo del pensiero in luogo del termine anatomico-genitale di cui è sinonimo, e che a noi, italiani in genere, piace mettere in bocca ogni due-tre parole [e no!, rafforzativo del pensiero, noi siciliani non usiamo più 'minchia' dai tempi di Garibaldi, eccherafforzativo del pensiero!]; per quanto riguarda la pronuncia delle pi, avete presente il gioco che fanno i ragazzini 'a chi sputa più lontano'? Ecco, lo sputo che vince, eliminando la parte iniziale di caricamento, è la prima pi. Le seconde pi, più forti e roboanti, sono del vecchietto che fa lo stesso gioco, ma non per gioco quanto per vizio, o per altro non so che), dicevo, fu la zia Pippina, dieci anni fa (no, amore, non sei vecchio), ad emanare la sopracitata proclamazione alla fine di un concerto rock tenuto dal gruppo cui faceva parte Lé.
Si noti che l'elogio di zia Pippina è alquanto insidioso: esprime una potenzialità non ancora attuata, esprime l'idea di aver intrapreso una strada ma di non esser ancora giunti alla meta, magari di essere, sì, ma di essere ancora quasi, sul punto di. Radicalizzando, espone il concetto del carnevalesco per il quale ci si veste di panni che non ci appartengono fino in fondo, se non per qualche breve istante di trascendenza da noi stessi.
Ciononostante li rese contenti. Questo dieci anni fa.
Giorni nostri.
Vì. al telefono: "[...], quello che scrivi è stupendo, [...], dovresti scrivere un libro, mi piace quando scrivi che [...]"
"...Davvero, Vì? Grazie."
"Non sembri nemmeno tu"
"..."  (la mia migliore amica)
"Sembri..."
"..." 
"...una..."
"...una che, Vì?"
"...una brava."
Ignorando l'imbarazzante sviluppo incontrollato della telefonata, vorrei precisare che Vì. è una donna profondamente colta, intellettualmente eclettica, che in genere esprime il proprio pensiero con ben più di due aggettivi contigui e generalisti. Immagino che in questa occasione non abbia trovato di meglio. Immagino che, se avesse saputo, questa volta avrebbe ceduto lo scarno italiano per prendere in prestito, così come facciamo ormai io e Lè. tutte le volte che ci compiaciamo l'un l'altro delle nostre performance, l'espressione di zia Pippina. 
Che a ottant'anni va ai concerti rock e le piace il progressive; che a novant'anni, suonati e vissuti nell'entroterra siciliano, riceve con una benedizione la compagna cittadina, e pancia già beffarda al seguito, del ragazzo che ha visto crescere; la cara zia Pippina, che non conosco bene ma che è già diventata forte forma simbolica nelle mie macchinazioni inconsce e che, presumo, non abbia la minima idea di quanto quell'apprezzamento elementare e spontaneo costituisca lo zoccolo duro del pensiero filosofico che indaga sulla dicotomia 'sembrare/essere' dal V sec. a. C. parmenideo fino agli attuali catastrofici sviluppi di tutti i GF e affini in scena.

Entrare nel club dei "Parivavu..." ha reso contenta anche me.
Sul perché irrisolto di tale contentezza, dell'accontentarsi di esser parso, anzicchè 'pi ddaveru' ...... magari prossimamente in questo blog.