Lo strumento della parola è qualcosa che indubitabilmente mi appartiene. Dico: storie, letture, parole crociate, griglie logiche, riviste, vocabolari di ogni specie, sinonimi e contrari, archetipi dell'inconscio, pensiero laterale, l'Eredità il pomeriggio su rai 1. Persino le etichette con i componenti chimici e biologico-nutritivi dietro detersivi e pacchi di biscotti, ché un giorno qualcuno mi disse che anche leggere i cartoni del latte faceva cultura.
La parola per me sottende il mondo. In principio fu il verbo credo di essere capace di concepirlo più di quanto il mio dubbio cosmico figlio di quest'era post-moderna mediatica ed effimera, e tanto più mediatica quanto più effimera, ché la sostanza non ha bisogno di essere pubblicizzata, voglia ammettere.
Io ci sguazzo nella parola e in tutte le forme che prende. Così come lo fa con l'acqua il nuotatore, gli sci lo sciatore, il coso Rocco Siffredi.
Per questo non riuscivo a capacitarmi del fatto che in Wired, la rivista che leggo ogni mattina, risalire al nome dell'articolista dietro ai pezzi era per me un'impresa titanica.
Proprio non ci riuscivo. Parole e idee anonime. Terribile. Come partire per una località e non poterne sapere i nomi delle vie, dei quartieri, della località stessa. Un unico blocco senza coordinate e punti di riferimento. L'uomo newageano direbbe grande esperienza di libertà; io, donna moderna nevrotica, che ho ancora bisogno delle mie certezze, direi l'Infernoooo (specie se non riuscissi a trovare quel localino di cui la Vivi mi ha parlato così tanto bene: "si trova lì: tra l'albero di nespolo e il tombino in basso a destra")
Ad ogni modo, dicevo: Wired e, per la mia vista ottusa, l'assenza dei nomi degli articolisti.
Sono andata avanti così per due anni, leggendolo e sentendomi un'idiota.
Ma stamattina è accaduto qualcosa. La svolta.
C'è questa rivista di Wired vecchia di secoli. Mi gira e mi rigira da settimane sotto al naso. E io la leggo. Ma a furia di leggerla, se proprio devo, da giorni non faccio altro che scegliermi l'articolo da leggere: quello della maestrina che lotta per l'alfabetizzazione dei bimbi in Africa. Ormai non leggo più il pezzo. Quello che guardo, ogni mattina da settimane, è la foto della donna. Mi piace quel suo modo lieve di guardare. E' una donna serena, realizzata, leggera. Tutto quello che non sono io.
La ammiro da settimane ogni mattina come farebbe una quindicenne con il poster di Jennifer Lopez e a suon di Get right cerca di far del suo culetto pallido e smorto uno bello sodo e latino americano.
Io faccio lo stesso, solo in un modo poco più sofisticato.
Stamattina, prima di arrivare alla foto, leggo di ingegneri e universitari e pensatori che lavorano per far grande sto cavolo di mondo. E io mi chiedo come caspita sono arrivata ad infognarmi così, tra un parchetto il pomeriggio e una litigata con mia madre ogni santo giorno della mia vita tutta uguale.
Ad un certo punto dai meandri sperduti della mia testa, mentre arrivo alla foto della maestrina e la guardo, mi rimbomba una voce che tuona tipo Dio quando sgama i due consorti dietro il cespuglio e comincia a tuonare: Questa è la donna che vorrei essere. Mentre mi vibra sta voce mi cade l'occhio. Dopo due anni di buio mi cade l'occhio sul primo nome di un articolista di Wired: Barbara Rivoli.
Barbara Rivoli.
E' la giornalista che qualche mese fa mi ha citata in un suo articolo su Stile.it e che mi ha mandato un'email carinissima.
No, dico, lo vedete il nesso?
Oh, io sì che l'ho visto.
Cioè: mi dico che sono diventata una merda, che mi sono infognata, che vorrei essere...., che vorrei fare...., in due anni che leggo Wired non ho mai visto mai un nome di un giornalista sulla rivista, guardo per settimana quella foto di quel pezzo e che succede? Sento quella voce e leggo che l'articolo è di Barbara Rivoli.
Mica cazzi.
Ho sentito i pianeti allinearsi, la voce del cosmo vibrare, l'energia dell'universo illuminare, Alleluja Alleluja cantare.
Poi mi sono calmata.
Va bè, è una coincidenza. Però...
Dal buio della mia testa mi pare sia una strada.
L'Universo ha così parlato. La seduta è aggiornata.
Non sono ancora sicura di cosa mi abbia detto.
Certo è che adesso so dove stanno messi nomi e cognomi dei giornalisti su Wired.