12.9.14

Vento contro

Treni in corsa. Qualunque sia la meta, siamo sempre e comunque dei treni in corsa.
Un bolide d'acciaio in corsa, il vento scagliato a chilometri orari di velocità che toglie il respiro, la terra sotto come olio dove si scivola distratti e inconsapevoli di quello che c'è attorno.
E il dramma non è questo. Non è correre alla cieca con tutte le cose che scappano pazze intorno. Non è nemmeno il qualunquismo della meta mai definita. Non è l'essere treni in corsa. 
Il dramma è quello di voler credere di stare arrivando, di starci fermando, di star per prendere respiro. 
Un rimando indefinito senza soluzione, un'utopia spinta sempre oltre, in avanti, correre sempre per non arrivare mai.
Il dramma è non voler riconoscere una sorta di bellezza, di potenza, di leggerezza nell'essere bolidi in corsa senza stazioni definitive dove fermarsi.
Le stazioni. Ci saranno pure le stazioni. E ci sono. Salvifiche terre franche di quiete. 
Le stazioni sono bar notturni pieni di luci gialle e alcool, sono case di mattoni e tende inamidate, sono stanze, sono piazze, sono luoghi di incontro tra persone, sono persone, sono storie d'amore, sono gesti d'amore, sono progetti. 
Sono anche e soprattutto calcoli errati. Come possiamo calcolare se non conosciamo i dati in nostro possesso, loro, che ci arrivano addosso senza che possiamo controllarli?
Le stazioni si incastrano benissimo sulla corsa, sono la nostra zona d'ombra e di ristoro. 
Ma quello che ci manca per dar loro il giusto peso è il senso del tempo: non abbiamo abbastanza senso del tempo per riconoscere che sono solo banchine di passaggio. 
Dopotutto ce lo siamo inventati il tempo. Il tempo è un disegno su una carta bianca, uno scarabocchio al quale abbiamo cominciato a credere. E ci è piaciuto così tanto sto scarabocchio che abbiamo cominciato a espanderlo, a farne dei ghirigori, lo abbiamo ricoperto di sfavillanti colori a olio e foglie d'oro. Ma rimane comunque che è uno scarabocchio.
E adesso ce lo portiamo addosso. Chiediamo a lui delle nostre azioni, delle nostre scelte. Lo tiriamo fuori dal taschino ogni volta che guardiamo il viso con le rughe, ogni volta che crediamo di stare scegliendo, ogni volta che tiriamo in ballo la nostra vita. 
La nostra vita. La vita non può mai essere nostra, via. 
È nostro solo il piccolo pezzetto di racconto che usiamo per raccontarla. Quello sì. Viviamo le cose. Le cose ci capitano. Ci accadono. Ma non sono le cose che ci accadono ad appartenerci. È quello che facciamo di loro attraverso il racconto, quello sì che ci appartiene. Le parole che scegliamo per raccontarli, sì che ci appartengono. 
Allora ce la raccontiamo in un modo questa vita, o in un altro, o  in un altro ancora, un modo comunque lo troviamo, dobbiamo pur trovarlo per capire. Ma cosa capiamo poi davvero se il racconto lo si inventa, lo si sforma, cosa potremmo mai capire se il racconto è la bugia che ci stiamo raccontando solo per il bisogno di averla, questa bugia.
Con le stazioni facciamo così. Ci inventiamo che siano casa nostra. La meta finale, insomma, dove il bolide stanco si cura le ferite del viaggio. E magari è anche così. Ci si ferma un po' per riposare. Per togliere le foglie, le sterpaglie, la terra, i graffi, l'arsura dei venti in picchiata. 
Ma non abbiamo abbastanza senso del tempo e così ci raccontiamo che quella stazione sarà nostra per sempre. 
Ma nostro e per sempre sono solo dei racconti malandati e scricchiolanti che ci raccontiamo.

Nostro e per sempre è solo il viaggio. È il correre. È avere il vento contro per tutto il tempo.
Ed è questo poi alla fine quello che ci tocca fare, l'unica vera assoluta cosa da fare. Nient'altro. 
Essere bolidi d'acciaio in picchiata contro vento. Ché se ci fermiamo per troppo tempo moriamo di ruggine. 
È il vento contro, scagliato a chilometri orari di velocità, che ci da esattamente la misura della nostra resistenza.

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